Il BLU della puntata precedente, ritrovato dopo giorni di pioggia battente, è tornato a governare la rada di Portoferraio. Dal promontorio delle Grotte si fa in tempo ad acchiappare l’ultimo tramonto, a guardare arabeschi di nuvole nel cielo rosso e la falce di luna sopra il profilo del Monte Capanne. Poi, rapidamente, il blu si fa cobalto e va via, lasciando il posto all’attacco del concerto dei “Lontano da qui”, ai timbri precisi delle due chitarre, alle percussioni e alla voce “da fado” di Elisa Castells. La rada di Portoferraio sparisce nella musica e anche le ombre dei Valeri Messalla, degli Aureli Cotta e di Ovidio si eclissano. L’ultima immagine e l’ultimo quesito, però, sono ancora archeologici. L’immagine, verde scuro nel crepuscolo, è quella di Monte Orello, proprio sopra Le Grotte. E’ un’altura importante, sede di una sorgente che potrebbe avere alimentato la stessa villa e, non solo. Mi chiedo anche se questo toponimo non possa essere molto antico. Forse, come la strada detta dell’Origlio, che fiancheggia il lago di Burano a Capalbio, deve il suo nome alla via Aurelia antica, così Monte Orello potrebbe derivare il suo nome dagli Aurelii, probabili ultimi proprietari della villa. Mi viene anche in mente che a Campiglia Marittima si trova un’altura, ormai orrendamente divorata dale cave, che si chiama Monte Valerio. Aurelii e Valerii ebbero forte presenza in questa parte dell’Etruria e in Sicilia e dovettero sviluppare, nel tempo, una sorta di solidarietà gentilizia, ed economica, nelle zone che avevano, in un modo o nell’altro, contribuito a conquistare per lo Stato romano. E lasciarono anche forti impronte toponomastiche. Sulla costa furono molto presenti anche gli Aemilii, che hanno lasciato traccia nella pineta di Rimigliano (da Rivus Aemilianus), nel torrente Milia e a Scarlino (per motivi che sarebbe lungo descrivere).
Gli interessi economici potevano essere i più diversi: sfruttamento dei ricchi bacini metalliferi e dei materiali da costruzione (un valore aggiunto nel caso dell’Elba e dell’entroterra di Populonia), produzione del carbone, sfruttamento delle millenarie reti mercantili. Ma quali che fossero le possibili specializzazioni, una condizione era ineludibile: l’autosufficienza idrica e alimentare. L’amico Alessandro Corretti potrebbe descrivere molto meglio di me l’importanza dell’Elba, e delle isole toscane, nelle navigazioni di lungo corso dei Greci a partire da epoche remotissime. I Focei che fondarono Marsiglia avevano ben stampati nella mente forme, profili e colori delle terre che via via apparivano all’orizzonte navigando verso ovest. Vi erano isole brulle e povere di cibo, come le Ponziane, per esempio, e isole verdissime e prospere, dove il cibo abbondava e le sorgenti sgorgavano pressoché ovunque. Non è, del resto, un mistero il fatto che l’Elba abbia conservato una sostanziale autonomia alimentare fino a tempi recentissimi. Ancora negli anni ’50 e ’60 le produzioni olearia, ortofrutticola e carnea erano elevate, per non parlare del vino, consumato localmente ma anche esportato in Liguria e in Piemonte, e, naturalmente, della pesca. La solidità di questa struttura, importante nelle epoche a noi più vicine, praticamente fin quasi a ieri, diventava decisiva per le economie e per le comunità del passato, per motivi facilmente intuibili. Ciò comporta, come inevitabile corollario, il fatto che le isole come l’Elba fossero molto coltivate. Il paesaggio insulare, insomma, doveva essere molto diverso da quello odierno, fin troppo verde e fin troppo boscoso. Non era certamente brullo ma coltivato, pressoché ovunque, dai fondovalle fino alle alture più elevate e nelle forme più diverse. Se andiamo a recuperare fotografie e cartoline dell’Elba stampate dagli anni ’20 agli anni ’60 ci troviamo di fronte un’isola molto meno boscosa e più coltivata. Oggi, nonostante le fitte foreste e i boschi, andiamo continuamente sott’acqua (anche pochi giorni fa). Certamente viviamo una fase di anomalo aumento della piovosità e scontiamo gli effetti di politiche urbanistiche del tutto errate. Ma abbiamo anche seguito filosofie ambientali improprie. Uno degli errori più marchiani commessi dall’ambientalismo fine a sé stesso e dalle discipline di governo recenti è stato quello di pensare che rimboschimenti e trionfo indiscriminato del verde selvaggio potessero prevenire i disastri provocati dall’acqua. Nella realtà, pioggia e cementificazione hanno trovato un alleato prezioso, e insperato, nella presunzione sbagliata che i contesti si potessero ri-naturalizzare. La natura è tornata, oggi, ma non nelle forme che le comunità umane avrebbero preferito, dalla Lunigiana alla valle dell’Albegna all’Elba. Il fatto è che, dal momento in cui l’uomo ha deciso di trasformare l’ambiente a suo uso, consumo e piacimento, ne è diventato responsabile a pieno titolo e non può esimersi dal gestirlo.
Ormai non possiamo più scindere stato di natura e stato di cultura. Trovo, personalmente, insoddisfacente il fatto che la cultura non compaia, se non in maniera occasionale, nelle attività del PNAT. Perché il PNAT è impostato in maniera così settoriale? Perché si occupa soltanto di quadri ambientali e non anche di valori storici (archeologia, paesaggi, configurazioni geografiche, modi di uso del suolo)? Siamo tutti d’accordo, immagino, sul fatto che l’accesso al cuore dell’isola (delle isole) non debba essere soltanto una passeggiata nel verde ma anche immersione nella storia, nelle geografie e nei paesaggi del passato. Tutte cose, queste, poco o niente valorizzate e descritte.
Il Museo più verde dell’Elba è certamente il MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO DI MARCIANA. Ristrutturato e riaperto nel 2002, si staglia sul muro verde di vegetazione e grigio di granito che sale verso la vetta del Monte Capanne. Il museo racconta la storia del territorio dell’Elba occidentale attraverso gli strumenti litici del Paleolitico e del Neolitico e i ricchi insediamenti di Madonna del Monte e di Monte Giove (età del Bronzo). All’età del Ferro (VIII secolo a.C.) sono databili le asce del “ripostiglio” di Chiessi e i corredi delle necropoli rupestri del Monte Capanne. Una sezione è dedicata allo sfruttamento del granito. Sono illustrati i relitti di due navi affondate nella baia di Procchio: una nave oneraria romana ed una piccola nave mercantile della fine del 1700.
L’aspetto saliente di questo piccolo e agguerrito Museo è certamente il suo essere una porta, quasi un invito, a camminare fra i graniti dell’Elba occidentale. Percorrete questi sentieri e troverete un’Elba scomparsa, fatta di pastori inghiottiti dal tempo senza tempo delle lunghissime durate. Un’altra Elba ancora, verrebbe da dire, dove i modelli culturali provenienti dall’esterno arrivavano certamente, come dimostrano le prestigiose ceramiche greche di età arcaica della Madonna del Monte (luogo di culto da sempre) ed erano percepiti come elementi di cultura “alta” ma dovevano integrarsi con tradizioni forti, esistenti sul posto dalla protostoria (età del rame e del bronzo), forse parzialmente “locali”, forse mutuate dalla vicina Corsica.
Attraversate questa porta ed entrate in questo verde intenso. Vi accorgerete che gli scarponcini da trekking non servono soltanto per osservare la natura ma anche per recuperare le immagini, purtroppo ancora sfuocate (per mancanza di comunicazione) di civiltà e comunità scomparse.
Mi congratulo con Mario Ettore Bacci per la sua archeologia raccontata ai bambini nel Museo (blu) della Linguella. Ringrazio Archeo Color Aps e i Lontano da qui per la bella serata, offerta alla mia famiglia e a tanti amici ritrovati.
Franco Cambi
(in copertina Torre del Giove)