Libero la Cucciarda, al secolo Libero Novelli, forse doveva il suo nome a un uccellino che con il suo canto annuncia l’alba, la cucciarda, o meglio l’allodola o lodola (Alauda arvensis), ormai quasi scomparsa. Ma quello è il nome che viene dato all’allodola nel Meridione d’Italia e forse portato alla Marina - insieme a Santa Chiara - dai pescatori napoletani che fondarono il Cotone. In qualche posto al sud, nella Puglia dove Libero non era mai stato, vengono chiamate scherzosamente cucciarde anche le bimbe dispettose o sempre corrucciate. Ma è probabilmente che fosse con lo stesso nome che venivano indicati anche i grassi nidiacei dei rondoni che Libero e i suoi fratelli pescavano sui tetti, fin sotto i cannelli dei coppi che gli facevano da nidi, con un lungo filo legato a una canna, con in cima un insetto per farli abboccare.
Ora, non essendo conosciuto come un virtuoso del canto come un allodola e non essendo dispettoso come un bimba pugliese imbronciata, Libero doveva più probabilmente il suo soprannome eterno alla pesca al contrario che esercitava sui tetti, lanciando esche dalle strade per placare la sua fame della guerra e del dopoguerra.
Infatti, Libero la Cucciarda non era per niente dispettoso come una bimba corrucciata, era un uomo grande, grosso e baffuto, buono fino alla mitezza e che nella sua vita ha avuto tre amori: Ivanna, che fino a poco tempo fa lo ricordava ancora seduta sulla pachino di fronte a quella che fu la loro ultima casa, il Partito Comunista e il vino.
Libero aveva una parlata zoppicante e musicale, un po’ nasale, intercalata da un “ennh”, e venata sempre da un’allegra ironia, quella che hanno i poveri per esorcizzare la vita difficile. Era un uomo semplice, che sapeva leggere e scrivere a malapena, ma dotato di un forte senso della giustizia, quasi genetico, e di una fedeltà da rondone monogamo per Ivanna.
Io lo conoscevo fin da quando ero bimbetto perché era amico di bevute e politica da bettola del mi’ babbo Veleno e perché più tardi, a volte, gli portavo la tessera del Partito Comunista Italiano che lui prendeva con solennità e, dopo averla guardata, e se la infilava nella tasca di dietro dei calzoni da lavoro come fosse una reliquia preziosa e mi pagava come se fosse un anniversario sacro, con la quota minima che per lui era già molto.
Per gli incroci del destino e del bisogno, ci ritrovammo a lavorare insieme come manovali per Ascanio Tori, io avrò avuto 15 anni e lui forse più di 50. E in un giorno torrido di agosto eravamo io e lui soli a lavorare al Campo sportivo di Ruotone, che allora era una specie di piccolo deserto terroso. Il sole era a picco quando Libero mi disse: «Bimbo, ho un’arsura che schianto e ho finito il da be’». Io risposi premuroso: «Libero, ‘un c’è problemi: io c’ho ancora dell’acqua».
La Cucciarda mi guardò come se avessi bestemmiato in chiesa o fatto il saluto romano nella sezione del PCI, sinceramente scioccato per l’offerta indecente: «Ma che mi voi vede’ morto! L’acqua mi fa sta’ male, ennh, se la bevo mi viene un’acidità di stomaco che non dormo per giorni». E poi allontanandosi sconsolato e sudato nel sole e tra la polvere: «Questo mi vole vede’ morto…».
Il nostro lavoro insieme durò poco perché Ascanio dopo qualche mese pose fine ai suoi giorni. Ma libero lo incontravo spesso e mi chiedeva spiegazioni sulla politica e su come rispondere a tono al bar a qualche democristiano e fascista. Mi voleva bene e io volevo bene a quell’uomo semplice e innocente.
Una volta, mentre tornavo da chissà dove, lo trovai inclinato sulla sua bicicletta nella cunetta della provinciale, con il capo appoggiato al muro esattamente nel punto dietro al quale prima c’era il pagliaio di Precipizio, barbiere e cerusico, e dove già allora c’era rimasto solo il palo di sostegno con in cima un lungo e ricurvo corno di toro dipinto di rosso, a scacciare il malocchio ed esorcizzare sfortune.
Libero era stato a vedere la partita del Marciana Marina e scendendo, deluso per la sconfitta dei rosso-blu e con in corpo qualche bicchiere i più, una ruota della sua bicicletta con i freni a bacchetta era scivolata nella zanella, lui aveva frenato e la bicicletta grigia si era dolcemente adagiata verso il muro. La Cucciarda aveva attutito lo sbandamento con la testa, fortunatamente difesa dal basco d’ordinanza, e era rimasto li: con la gamba sinistra alzata verso la provinciale a fare da bilanciere e la destra ancora sul pedale e col ginocchio appoggiato al muro a fare da puntello. Provare a spostarsi da quello stallo avrebbe provocato una caduta rovinosa.
Lo guardai e gli dissi: «Che fai Libero: agguanti il muro?». E lui con un sorriso sforzato: «Ennh, sennò casca».
Lo aiutai a ritirarsi su da quello stremante equilibrio. La Cucciarda si riassestò il basco, mi ringraziò, mi salutò e poi si ributtò zigzagando in picchiata, verso la sua casa e dove lo aspettava Ivanna. Con il giacchetto svolazzante al vento, Libero come una delle cucciarde che non era riuscito a pescare da bimbo.
Umberto Mazzantini