1. GLI ETRUSCHI DEI CASTELLI
Se doveste immaginare l’Elba nel 566 avanti Cristo, forse dovreste pensare a degli incredibili castelli megalitici costruiti su tutte le sue vette più alte, circondati di case borghesi e capanne elittiche di operai.
E templi, certamente templi.
Nell’Elba di inizio VI secolo fino al 566 avanti Cristo assieme agli etruschi dovevano vivere anche molti fenici e greci, forse questi più distribuiti nelle località di mare. Tra queste dovevano avere – a giudicare dai ritrovamenti – una certa importanza Sant’Andrea e Cotoncello, porti “elbani” dove si parlavano molte lingue. Qui i patresai e i santandreesi antichi avevano certamente osterie per i marinai di passaggio, generi di prima necessità, mini-emporia (εμπόριη) – ovvero mercatini per scambisti (di merci, prodotti e materie prime). Qui si arrivava dopo la lunghissima traversata dalle Bocche del Rodano, passando per Capo d’Antibes, direttamente su Capo Corso e la costa nordoccidentale elbana.
Questi elbani ante litteram, non erano una razza nobile ed antica parlando di sangue. Essi erano il risultato di stranieri che – innamoratisi dell’isola sacra – avevano scelto d’impiantare qui le proprie radici.
Ma dominava su tutto il resto un’identità che vinceva su tutte le altre, qui si era isolani, elbani prima d’ogni altra origine.
Certamente i Liguri e/o i Villanoviani, chissà i Nuragici. Ma sette otto secoli prima forse Œnotri, protoliguri, Rinaldoniani, d’Ozieri, chissà.
Nel II secolo a. C. un popolo- il cui nome é tutto un programma, viene ricordato come agguerrito difensore della provincia Apuana. Erano gli Ilvates. Il nome è bello ed altisonante, si potrebbe proporre di usarlo per categorizzare la/le civiltà tipicamente elbane, che da sempre hanno abitato quest’isola.
Questa identità patria degli Ilvate potrebbe aiutarci a cercare una ragione per l’assenza di ricche necropoli etrusche sull’Elba.
All’Elba forse si doveva scegliere perlopiù se adottare a sé il locale rito funebre e la specifica sepoltura, oppure far trasportare le esequie alla propria terra d’origine, sia che si venisse da Atene, da Corinto, da Veio, da Vulci o da Cartagine.
Questo troverebbe conforto nell’episodio di 1137 anni dopo, quando Cerbonio scelse di morire nel Comune di Giove (forse tra Poggio e Marciana) lasciò detto che lo si seppellisse a Populonia.
Altrimenti morire all’Elba e riposarvi, avrebbe previsto un tipo molto particolare di sepoltura, in grotticelle di granito o addirittura interrati senza volumi d’aria.
Per fenici, greci ed etruschi, non doveva essere il massimo.
Invece i Romani, più tardi, almeno a Portus Argus (Portoferraio) e a Fabricha Ferraria (industria di fabbri) o Ferraia (senza l’ultima “erre”, non “del ferro” ma dell’ “agricoltura”), dimostrarono di non disdegnare la sepoltura in loco.
I Romani erano infatti come una cultura melting pot insulare: pieni di contaminazioni, ma ancora più fortemente identitari.
Anche oggi, si può essere nativi di Melbourne, di Stoccolma o di Edimburgo, non cambia niente, dopo aver vissuto sull’isola a lungo ci si sente tutti prepotentemente elbani.
Essere elbani è un sentimento prevaricatore, quando lo si esperisce non c’è posto per emozioni aliene che mettano in pericolo la propria ELBANITÀ.
Il paesaggio, le montagne, le vallate, che oggi ci appaiono semplicemente meravigliose, dovevano essere indiscutibilmente SACRE per gli antichi.
Che dire poi della profonda sensibilità degli Etruschi (e anche degli “Ilvates”) per questo territorio. Loro che sacralizzavano laghi, sorgenti, montagne e mari, quale altro posto avrebbero potuto considerare più SACRO di questo?
Questo forse ci offre un’ipotesi plausibile del perché il QUADRO GEOPOLITICO FEDERALE dell’Elba nel VI secolo, sia cosí eterogeneo. All’Elba non si trova prevalenza di materiali da una sola specifica città etrusca o regione delle Federazioni Etrusche. L’isola, tra roccia, terra e mare, ha restituito agli archeologi un complesso crogiuolo d’identità, irriducibili ad un unico “dominio”.
Vulci, Cerveteri, Belsedere tra Cortona e Perugia, Tuscania, Tarquinia, Volterra e Populonia, forse non tutte, ma molte delle città presenti sull’isola.
Nel Castello di Cupes (Castiglione di San Martino, presso la Villa di “Napoleone”) che ci facevano degli etruschi campani? Forse i forni per il ferro elbano presenti ad Ischia qualcosa ci possono rivelare.
La stessa storia del Volterraio ha preso una svolta senza ritorno, il toponimo già diceva tanto, la moneta di Volterra dice davvero tutto.
Che i Pisani dall’anno 1000 e rotti del medioevo abbiano RISTRUTTURATO i ruderi di alcune fortezze etrusche abbandonate ci potrebbe anche stare.
Forse non è il caso della Fortezza di Marciana, ma potrebbe esserlo stato per quelle di Poggio, San Piero, Rio e Volterraio.
2. POPULONIA (racconto di Isidoro Falchi)
Valentino Nizzo, dopo aver stabilito che le più arcaiche tombe di Populonia dimostrabili con certezza appartengono a un quadro cronologico posteriore al 650 aC, conclude che “mentre nell’Etruria meridionale (laziale) si affermava il modello delle tombe a tamburo (UNO STILE), nell’area di Populonia erano utilizzati SIMULTANEAMENTE DIVERSI TIPI architettonici [… a causa di] DIFFERENTI TECNICHE COSTRUTTIVE come pure a DIVERSE COMPONENTI SOCIALI.
(cfr. ROMUALDI, Appunti sull’architettura funeraria a Populonia nell’Orientalizzante, pagg. 47-60)
Si trova in Paola Puma (2014):
“Nonostante i pesanti danni causati dalle escavazioni eseguite con mezzi meccanici per l’asportazione delle scorie ferrose, la necropoli si rivela costituita da un numero elevato di strutture, ancora oggi in corso di scavo, che vanno dal VII secolo a.C. al III secolo a.C.”
e poi
“Se il limite anteriore di utilizzo sepolcrale sistematico dell’area è abbastanza concordemente stabilito nell’inizio della fase Orientalizzante (collocabile alla fine dell’VIII secolo a.C.), la presenza di tumuli dalle dimensioni rilevanti si addensa a partire dal secondo quarto del VII ed è collegata al macroscopico sviluppo del ceto aristocratico Orientalizzante.”
Cfr. Daniele Maras, in GEDGAA, su EX INSULA CORSICA in Servio. Servio non dice “città fondata dagli etruschi”, ma al contrario “città fondata dai popoli dalla Corsica”.
3. ISCRIZIONI IN LATINO DA PORTO ARGO (CIL)
Con molta licenza vado a tradurre poeticamente un’iscrizione romana trovata a Portoferraio e riportata nel CIL.
§§§
Di quel che fu cosí effimero,
a Giove Ottimo Massimo,
giusto il tempo di una forma,
che per sempre sarà felice.
§§§
Il Corpus Inscriptionum Latinarum riporta quanto segue:
2615 litteris partim erosis in tabula marmorea di quadro perfetto della larghezza di un braccio. Era in una stanza sotto la cisterna di piazza D’Arme in Porto Ferrajo.
EX HIS MOX-IVP OM
SIQVD TEMPVS PER[…]
[…]E FIIX NEC NON ISTA
FVERIT SEMPER FELIX
in Lombardi memorie p. 183. Non attigi. Fortasse subest fraus*.
*Quando non vi era testimonianza diretta, secondo i dettami della lezione del Mommsen, l’iscrizione era immediatamente tacciata di falso (FRAUS=FRODE).
4. LA REGINA (DI) ARGO
Sulla Regina Alba credo che l’aspetto leggendario e le numerose gonfiature nel processo di mitopoiesi, di creazione di una storia mitica, come sempre avviene quando ci si raccontano le cose in piazza o al bar, ci abbia portati a racchiuderci nella comfort zone del nostro positivismo ateo novecentesco, impedendoci di cogliere nelle trame del racconto la stratificazione del vero. Invece la Orlanda Pancrazzi, emerita professoressa dell’Università di Pisa, già negli anni ’80 sosteneva “che molte delle fantasie di Celeteuso Goto, (pseudonimo dell’autore più citato dagli scrittori di storia elbana del ‘700) si sono rivelate aventi un fondo di verità a seguito di ricerche e scavi archeologici.
Alba certo è oltre che “capitale” dei latini, termine latino che sta per ‘Bianca’, che potrebbe essere la latinizzazione del greco Argo, “capitale” dei popoli argivi, dell’età del bronzo, erroneamente detti “greci” o “micenei”. Argo, tra l’altro, termine greco che sta per ‘bianco’. Ricordo che in epoca in cui l’Elba non era ancora sotto Roma (280 a. C. circa) era appena uscita la versione delle Argonautiche di Apollonio, da Alessandria d’Egitto, dove si trovavano tutti i libri di storia e letteratura nella grande biblioteca. Apollonio da Rodi faceva sbarcare i nostri eroi a (LIMEN ARGOO) ΛΙΜΉΝ ΑΡΓΌΟ, “limēn” che puó essere letto sia come ‘Confine’, estrema frontiera dell’impero dei regni argivi, sia come ‘Capo’ (Capobianco è ancora oggi il nome di una splendida punta facilmente riconoscibile dai naviganti antichi) oppure come ‘Porto’, Porto Bianco o Porto di Argo, per la nave Argo, oppure di Argo per la città o per la nazione argiva.
5. IL MANOSCRITTO DEL CAPITANO SARRI DEL ‘700
Coresi del Bruno e Sarri, che per primi tra XVII e XVIII secolo ne scrivono, raccontano di diversi cimiteri, aree di sepoltura delle cui tombe purtroppo è andato quasi tutto perduto, di certo restano almeno le trascrizioni di alcune lapidi da sepolture presso piazza della Repubblica e presso il Ponticello. Ma i nostri ci parlano anche di aree residenziali fin sotto i luoghi dove poi sarebbero sorti Forte Falcone e Forte Stella. Di marmi e splendidi muri e pavimenti, dell’altare e di un tempio circa all’inizio di via dell’Amore, e di altri ritrovamenti. Non dimentichiamoci che anche di recente la squadra del professor Franco Cambi dell’Università di Siena ha scavato e trovato nell’area tra San Giovanni e Le Grotte.
I lavori di rifondazione della città con Cosimo bisogna dedurre che non rispettarono minimamente la memoria di questa città anteriore, costruirono sulle sue rovine ricoprendo il tutto ? Una cosa che sappiamo ma non dovremmo stancarci di dire è che l’Elba ha vissuto ricorsivamente dei momenti di gloria grazie a uomini o donne molto potenti che se ne sono presi particolarmente cura.
6. ATTIANO L’ANDALUSO PADRINO DI ADRIANO E LE DUE PORTOFERRAIO
Questo è stato il caso, oltre che di Napoleone, di Cosimo, ma come dimenticare il prestigioso numero 2 dell’Impero Romano sotto Adriano, l’uomo che lo aveva cresciuto e che poi fece in modo che fosse proprio lui e nessun altro a succedere a Traiano come Augusto. Publio Acilio Attiano deve aver reso la Portoferraio dell’epoca certamente grandiosa, a giudicare dai marmi e i graniti scolpiti e dall’acquedotto. Attiano aveva fatto incidere il suo nome sulla pietra e persino sui tubi di piombo che correvano sotto la città, o forse sarebbe meglio dire, le due città: la città commerciale, amministrativa, dell’autorità portuale e della navigazione da diporto, Portus Argus della Tavola Peutingeriana, una sorta di atlante geografico dei Romani. E l’altra città, più borgata, campagnia, industria metallurgica, che doveva estendersi al di qua del Ponticello, fino al Capannone, al Norman’s Club, ad ovest e fino alle Grotte ad est, quella che in latino, nella migliore delle mie ipotesi, doveva chiamarsi Fabrica Ferraria. I due nomi, seguendo la stessa ipotesi, avvalorata anche dalla tradizione pressoché orale o trascrizione di leggende popolari, si sarebbero separati e tramandati su due canali diversi. Fabrica si sarebbe trasformato in latino medievale scritto in Fabricha, come in diverse ricorrenze indirette, e nel volgare parlato in Fabricia. Ferraria invece avrebbe perso una erre nel processo – diciamo cosí – d’italianizzazione, trasformandosi in Ferraia e in forme subalterne al maschile Ferraio, e Ferrato, come alle Grotte, o Ferraje, come in marcianese nel secolo scorso. Gli archeologi hanno individuato diversi siti interessanti di epoche etrusca e antecedenti, in tutto quello che dal 1557, alla restituzione del resto dell’Elba agli Appiani, era il territorio dei Medici, dello stato del Ducato di Etruria, MAGNUS DUX ETRURIAE, cosí si legge in una lapide della città riferito al Granduca di Toscana.
7. IL PASSO DELLE ARGONAUTICHE RODIANE IV.645-658
E ne passaron d’albe, pria che in lidi
Dal mar mosso da un’idea d’Hera
Giungessero, impavidi attraversando
Le terre dei Celti e dei Ligusti illesi,
Quantunque la Divina di nebbie
Fittissime le ricoprisse e costoro
Navigando il fiume giù dalla bocca
Di mezzo, finiron dai figli di Zeus
Costeggiando le Stochadi in salvo,
Dove di lor sull’isole è sacro culto e
Altari agli Argonauti s’eressero,
E navi da Zeus, anche le venture,
Non solo le che lor soccorsero.
Così, lasciate le Stochadi ad oriente
Approdarono all’Elba°, Aethalia dove
Si detersero i corpi, sudati dalla fatica,
Raschiandosi la pelle con le ghiaie°°,
Ed ora le ghiaie son color della di lor pelle,
E trovansi sparpagliate sulla spiaggia°°°,
E le loro masse* di ferro e gli strumenti**
Mossi dal genio divino***, e il porto^
È d’Argo^^, enfatico eponimo^^^.
Note:
° Αίθαλίην, Aithalia.
°° ψηφίσιν, piccola ghiaia.
°°° αίγιαλοίο, spiaggia.
σόλοι, massa o grumo (schiumolo?) di ferro usato come peso per essere lanciato, alternativamente al disco, δίσκος.
** τεύχεα, strumenti e accessori per la guerra, armi, armature; nelle tragedie anche una barca o una vasca da bagno; in rari casi anche vaso o anfora o tazza, insomma qualsiasi cosa “a forma di conca”.
*** θέσκελα, strumenti mossi da un dio, θεός+κέλλω, cose meravigliose.
^ λιμήν, porto, riparo dal mare, rifugio; in certi casi anche col senso di àgorà o di grembo materno.
^^ Αργώος, della nave Αργώ Argô, da non confondere con Άργος, nome della città capoluogo degli argivi, oppure per estensione come in seguito per Roma, non la città ma tutto l’impero dei re delle città del Peloponneso in Età “micenea”, ma anche forse come sinonimo di “impero”, visto che anche per la parte settentrionale della Grecia il cui capoluogo forse era Larisa, Omero parla di Argo pelasgica. Senso che si adfice all’etimo di luminoso e splendente.
In Roma Imperiale, quattro secoli dopo che Apollonio ha composto le Argonautiche ad Alessandria, la città ancora porta il nome di Portus Argus. Notare che in altre trascrizioni del manoscritto si legge anche Αργοο.
^^^ έπωνυμίην πεφάτισται, chiamato così dal loro nome.
8. L’ATLANTE DI ROMA IMPERIALE. ANGO PORTVS PORT. LONG. IN NAXO INSVLA
Cosí, per errori di scribi e trascrizioni da carte più antiche ARGO (dalla rodiana memoria LIMHEN ARGOO λιμήν αργοο) diventó nella Tabula Peutingeriana ANGO e ILVA viene riportata come NAXO, evidente richiamo a Naxos.
Diventa l’ennesimo caso di toponimo ellenicista attribuito all’isola, insieme ad AITAREIA (lineare b, cfr. mio omonimo articolo sul web) ΑΙTHALIA, e il serviano ITHACA (cfr. miei artt. e post).
Il Portus Longus è chiaramente l’insenatura del Golfo di Mola, che poteva arrivare fino alla stazione di servizio dove c’è InCoop; data soprattutto l’esistenza di un borgo tardo etrusco in zona, come si evince dalla necropoli di Buraccio, e strategico era senz’altro il promontorio che collega i piani di Mola e dell’Acquabona, ponte tra i due mari. Non solo Monte Fabbrello. E tutta quell’area doveva essere fortemente abitata fino alla valle di San Martino. È quella che secondo me, distinta dal porto coi suoi “uffici”, della vecchia Portoferraio (leggi Argo Porto) potrebbe rispondere a diverse questioni toponomastiche ed essersi chiamata compatibilmente con la latinistica Fabricha Ferraria (poi Fabricha nel medioevo divenuta quasi completamente campagna mitizzata in Fabricia, e Ferraria, prima mutata in Ferraja/Ferrajae e poi in Ferraio).
Sulla Regina Alba credo che l’aspetto leggendario e le numerose gonfiature favoriscono la creazione di una storia mitica, come avviene quando ci si raccontano le cose in piazza o al bar. E ciò impdisce di cogliere nelle trame del racconto la stratificazione della verità storica. Invece la Orlanda Pancrazzi, esimia e compianta professoressa dell’Università di Pisa, già negli anni ’80 sosteneva “che molte delle fantasie di Celeteuso Goto, pseudonimo dell’ autore più citato dagli scrittori di storia elbana del ‘700, si sono rivelate vicine al vero, grazie a ricerche e scavi archeologici del’ 900. Alba certo è, oltre che “capitale” dei latini, termine latino che sta per Bianca, così come Argo è “capitale” dei greci dell’età del bronzo, altro che termine greco che sta per bianco. In epoca in cui l’Elba non era ancora sotto Roma, a inizio terzo secolo avanti Cristo, era uscita la versione delle Argonautiche di Apollonio Rodio da Alessandria d’Egitto, che faceva sbarcare glii nostri eroi a Limen Argoo, toponimo che può essere letto come “Confine” , come “Capo” (Bianco) o “Porto”, e, Bianco, o infine come Porto “di Argo” per la nave o infine “di Argo” per la città.
Come si sviluppava questa città romana nella Portoferraio di allora?
Coresi del Bruno e Sarri, che per primi tra XVII e XVIII secolo ne scrivono, raccontano di diversi cimiteri, aree di sepoltura delle cui tombe purtroppo è andato quasi tutto perduto, di certo restano almeno le trascrizioni di alcune lapidi da sepolture presso piazza della Repubblica e presso il Ponticello. Ma i nostri ci parlano anche di aree residenziali fin sotto i luoghi dove poi sarebbero sorti Forte Falcone e Forte Stella. Questo ci dà la dimensione della città invitandoci a parlarne. Di marmi e splendidi muri e pavimenti, dell’altare e di un tempio circa all’inizio di via dell’Amore, e di altri ritrovamenti. Non dimentichiamoci che anche di recente il team la squadra del professor Franco Cambi dell’Università di Siena ha scavato e trovato nell’area tra San Giovanni e Le Grotte, una fattoria romana con vari grandi dolia che contenevano il vino”.
Ma allora si può dire che con Cosimo non fu rispettata la città romana di un tempo più remoto e le fortificazioni ricoprirono tutto ?
Una cosa che sappiamo ma non dovremmo stancarci di dire è che l’Elba ha vissuto momenti di gloria ricorrente grazie a uomini o donne molto potenti, che se ne sono presi particolarmente cura. Questo è stato il caso, oltre che di Napoleone, di Cosimo, ma come dimenticare Ilil prestigioso numero 2 dell’Impero Romano sotto Adriano, l’uomo che lo aveva cresciuto e che poi fece in modo che fosse proprio lui e nessun altro a succedere a Traiano, come Augusto. Publio Acilio Attiano deve aver reso la Portoferraio dell’epoca (prima del 117 a. C.) certamente grandiosa, a giudicare dai marmi e i graniti scolpiti e dall’acquedotto. Attiano aveva fatto incidere il suo nome sulla pietra e persino sui tubi di piombo che correvano sotto la città, o forse sarebbe meglio dire, le due città: la città commerciale, amministrativa, dell’autorità portuale e della navigazione da diporto, Portus Argus della Tavola Peutingeriana (atlante geografico dei Romani). E l’altra città, più borgata, campagna, industria metallurgica, che doveva estendersi al di qua del Ponticello, fino a sotto il Capannone, al bivio per la Biodola, ad ovest e fino alla Villa delle Grotte ed oltre ad est, che in latino, nella migliore delle ipotesi, doveva chiamarsi Fabricha Ferraria.
I due nomi, seguendo la stessa ipotesi, avvalorata anche dalla tradizione pressoché orale o trascrizione di leggende popolari, si sarebbero separati e tramandati su due canali diversi. Fabrica si sarebbe trasformato in latino medievale scritto in Fabricha, come in diverse ricorrenze indirette, e nel volgare parlato in Fabricia. Ferraria invece avrebbe perso una erre nel processo – diciamo cosí – d’italianizzazione, trasformandosi in Ferraia e in forme subalterne al maschile Ferraio, e Ferrato, come alle Grotte, o Ferraje, come in marcianese nel secolo scorso. Gli archeologi hanno individuato diversi siti interessanti di epoche etrusca e antecedenti, in tutto quello che dal 1557, alla restituzione del resto dell’Elba agli Appiani, era il territorio dei Medici, dello stato del Ducato di Etruria, MAGNUS DUX ETRURIAE, così si legge in una lapide della città, riferito al Granduca di Toscana.