L'8 dicembre 1886 a Capoliveri, per futili motivi, nasce uno scontro. L'intervento della forza pubblica è violentissimo: i carabinieri aprono il fuoco sulla folla. Ci sono due morti e 14 feriti. È uno degli episodi più gravi della storia sociale elbana. Il “Corriere dell'Elba” esce con uno speciale, in cui il giornalista conclude la cronaca scrivendo che “scaturisce dolorosamente vero che a poche miglia di distanza da noi, in questa pacifica isola d'Elba, in un paesetto quieto, tranquillo, dove le ire di parte si manifestano con qualche innocuo grido di 'viva' e 'abbasso' proferite da labbra di fanciulletti, è stata commessa una strage di creature umane”.
Premesso che le vittime del fatto raccontato sono realmente innocenti e niente può giustificare la condotta criminale della forza pubblica, dallo scritto emerge una cosa chiara: l'idea degli elbani come persone naturalmente pacifiche, quiete, tranquille, brava gente, è vecchissima. E come si vede era già sdoganata dai giornalisti isolani. Quindi persone di cultura.
Ed è arrivata intatta fino ai giorni nostri. E non ha riguardato solo i giornalisti, ma anche studiosi di storia locale. Ricercatori di valore, come Alfonso Preziosi, Aulo Gasparri, Fortunato Colella, Luigi de Pasquali, pur riportando con esattezza e onestà intellettuale episodi gravissimi, quando esprimono valutazioni personali non resistono a seguire la vulgata comune. Non possono esimersi dal dire che, sì, qualche episodio è stato grave, ma gli elbani nel complesso sono brava gente, accoglienti, alieni da violenza. Oppure che il fascismo elbano è qualcosa di diverso da quello del continente: qui in fondo siamo immuni dagli estremismi, ci conosciamo tutti, non possiamo mica farci del male per un'idea politica.
Perché gli intellettuali non hanno fatto uno sforzo per uscire dal luogo comune? Non stupisce che il mito degli “elbani brava gente”, del ritornello “episodi alieni alla nostra pacifica comunità”, sia stato propagandato dai politici, di cui abbiamo già appurato la generale ignoranza e mediocrità. Ma perché anche giornalisti e studiosi, ovvero quegli intellettuali che dovrebbero essere gli anticorpi della nostra società, come li definì in un'intervista Fabrizio de Andrè, si sono adeguati a questo conformismo? Le ragioni sono diverse.
Forse la principale è non apparire provocatori. Come questa serie nel suo piccolo ha dimostrato, toccare certi argomenti, svelare certi misfatti, mettere di fronte a certe considerazioni scomode, può attirare attacchi scomposti e insolenze. Inoltre molti dei nostri intellettuali hanno probabilmente assistito alle campagne di pesante delegittimazione che in passato dovettero subire quegli storici, primo fra tutti Angelo del Boca, che svelarono con prove inoppugnabili l'impostura del mito del “bravo italiano” nelle guerre e nelle campagne coloniali del nostro paese. Il risultato, anche a carattere elbano, è stato quindi per molti studiosi evitare polemiche, o ancor peggio querele, o inimicarsi troppe persone, specialmente in una società piccola e talvolta claustrofobica come la nostra. Meglio adattarsi il più possibile a un certo conformismo che prenderlo di punta. Per alcuni versi è stata la ragione che ha tutelato il loro quieto vivere.
Quieto vivere che ha caratterizzato anche il lavoro di troppi giornalisti elbani. È indubbio che questi debbano barcamenarsi in una vasta insofferenza e arroganza dei politici verso le critiche. Lo strumento della querela, sacrosanto contro calunnie e diffamazioni, è troppo spesso snaturato, diventando l'arma con cui minacciare chi indaga troppo o contesta anche con garbo e argomenti centrati. Non importa che il potente di turno sappia poi di perdere l'azione legale, l'importante è che sulla testa del giornalista arrivi una metaforica manganellata. Ovvero il tipo più subdolo di violenza. Paradossalmente perpetrato proprio da quelli che dopo un fatto grave intonano il coretto “sono episodi estranei alla nostra pacifica società”. Ci sarebbe quasi da ridere.
All'Elba poi sussiste un rapporto asimmetrico: da una parte c'è un mondo di potere (localistico, ma pur sempre potere) estremamente permaloso; dall'altro un mondo fatto da piccola informazione, quindi non coperto da grosse risorse economiche e, di conseguenza, senza grosse garanzie legali. È ovvio che agli esponenti del primo mondo costa poco o nulla intentare una querela, mentre diventa un guaio enorme per un giornalista subirla, sia in termini economici che di serenità nel continuare il servizio.
Questo ha avuto un costo enorme, che ben si vede nella storia del giornalismo isolano. Se un secolo fa osservatori come Cesare Cestari, Pilade del Buono, Frediano Frediani, arrivavano allo scontro durissimo, alla polemica a viso aperto, alla denuncia di nefandezze, talvolta criticando esponenti delle società amministratrici di miniere e altiforni, banche e gruppi industriali al vertice del potere nazionale, autorità poliziesche e ministeriali; con l'andare degli anni, fino ai giorni nostri, per le ragioni che abbiamo detto, c'è stato uno scivolamento verso un'informazione soporifera e conformistica. Non una sola parola fuori posto deve essere pronunciata, diceva Pier Paolo Pasolini in anni infinitamente più coraggiosi dei nostri, il manovratore non deve essere disturbato, non una domanda o critica scomoda deve essere formulata al potere. È ovvio che il quieto vivere dei giornalisti non poteva che portare alla morte intellettuale del ragionamento fuori dal luogo comune, favorendo una società non allenata all'importanza del pensiero critico.
Nel caso del ventennio nero viene il sospetto che abbia pesato anche una ragione nostalgica, che trasuda dagli scritti soprattutto di Gasparri e Colella. Non nostalgia del fascismo, sia chiaro: i due intellettuali erano liberali a tutta prova. Bensì una nostalgia più personale. Gli studiosi citati erano giovani negli anni tra le due guerre, e quindi li hanno vissuti come un'età felice. Non a caso Colella titolava un suo articolo storico su “lo Scoglio” come “Quei favolosi anni Trenta”.
Ma uno studioso non fa un buon servizio alla storia se antepone il suo vissuto ai fatti oggettivi. Gli anni '30 possono essere favolosi per chi li ha vissuti da ragazzo spensierato, non per un antifascista umiliato e violentato per le sue idee, o un ebreo perseguitato da immonde leggi razziali. Per scriverne a ragion veduta, bisogna fare lo sforzo di guardare a un periodo storico in tutta la sua complessità.
Soprattutto perché non educare alla complessità può fare grossi danni. Anche per queste semplificazioni e falsi miti, che poi in fondo sotto una dittatura non si sta tanto male, che un po' di ordine è bello, ci troviamo oggi con i frutti avvelenati di una società anestetizzata dalla mancanza di memoria, acritica e in balia del primo venditore di olio di serpenti che passa.
Andrea Galassi