È da poco uscito, per i tipi della Giunti Editore, il romanzo “La star”, l’ultima opera di Francesca Bertuzzi, interamente ambientato all’isola d’Elba.
Scrittrice e sceneggiatrice, Francesca Bertuzzi esordisce nel 2011 con il romanzo “Il Carnefice” (Newton e Compton editori in Roma), opera che ha superato le centomila copie vendute imponendosi sin da subito come un vero e proprio best seller. Con le opere successive si è affermata tra le voci più originali e interessanti della narrativa italiana di genere, distinguendosi per personaggi femminili forti e fuori dagli schemi e attraversando tutte le diverse sfumature del romanzo dell’inquietudine, dall’horror di formazione al thriller psicologico fino al noir.
Come soggettista e sceneggiatrice ha lavorato con diverse case di produzione cinematografiche e televisive fra cui TaoDue (Mediaset) e Rainbow Group. Suoi il soggetto del film horror “Weekend” di Riccardo Grandi (per Amazon Prime) e la sceneggiatura del cortometraggio horror-mystery “Delitto Naturale”, candidato ai Globi D’Oro e ai Nastri d’Argento 2020. Nel 2017 è stata selezionata come sceneggiatrice finalista al Biennale College Cinema International, il laboratorio di alta formazione della Biennale di Venezia rivolto a cineasti emergenti per lo sviluppo e la realizzazione di lungometraggi a micro-budget da presentare alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Nel 2019 ha infine curato il soggetto e la sceneggiatura della web series horror supernaturale “Ghost Cam”, caldamente accolta negli Stati Uniti e subito acquistata dal broadcaster americano Seeka Tv. Attualmente lavora alla sceneggiatura di un film horror diretto da Valentina Bertuzzi.
Il suo ultimo libro è “La star” (Giunti, Firenze-Milano, 2024), ambientato all’isola d’Elba. «Nel cuore della notte, un automobilista scorge una figura spettrale fra gli alberi sul ciglio della strada: è una ragazza, vestita solo di una camicia bianca, e barcolla con lo sguardo perso nel vuoto. La riconosce immediatamente: negli ultimi mesi, suo malgrado, è diventata la donna più famosa del mondo. Sono passati novantasei giorni da quando Benedetta Canè, starlette televisiva che anni addietro ha concorso a Miss Italia, è stata brutalmente rapita, e da allora il mondo intero ne ha seguito la sorte con il fiato sospeso. Durante la prigionia, infatti, il suo sequestratore l’ha costantemente ripresa, pubblicando i filmati in rete: video che sono diventati virali, con centinaia di milioni di views. Adesso, per un caso fortuito e inspiegabile, Benedetta è riuscita a liberarsi, e ancora in stato di shock racconta di avere ucciso il suo aguzzino nella grotta dov’era segregata. Quando la polizia si reca sul luogo del delitto, però, trova solo tracce di sangue: il maniaco è sopravvissuto. E adesso sta cercando la sua preda. In un’Isola d’Elba deserta, gelida e selvaggia, inizia una serrata caccia all’uomo, fra depistaggi, inquietanti coincidenze e il morboso interesse delle telecamere. Alle indagini prende parte anche la cugina di Benedetta, Arianna Canè, che da anni si è lasciata alle spalle l’isola per diventare giornalista d’assalto a Milano. Ha un passato oscuro, un intuito prodigioso e la determinazione di chi è disposto a mettere in gioco tutto. Ma è in cerca della verità o dello scoop che la renderà celebre?» (dalla quarta di copertina).
Di seguito la nostra intervista alla star del thriller italiano
Partiamo dagli esordi. Il romanzo “Il carnefice” (Newton e Compton, Roma, 2011) racconta una storia claustrofobica che si svolge in uno di quei piccoli paesi della provincia italiana all’apparenza tranquilli, in cui tuttavia il male esiste, si nutre e cresce fra le vie strette, le case decadenti e i bar semibui, in un crescendo di colpi di scena e cieca violenza. «Una storia abruzzese che viene dal Texas, con molte suggestioni pulp.» lo definisce “Il Venerdì di Repubblica”. Il ritmo è tipico dei thriller di Lansdale, la storia è infarcita di riferimenti nostrali, le atmosfere cupe ricordano la Torino gelida di Mimmo Calopresti e quella borghese di Fruttero e Lucentini. Quali sono, oltre a queste, le Sue fonti d’ispirazione?
Le mie fonti d’ispirazione sono molteplici e di diversa tipologia. Non solo la letteratura, dunque, ma anche il cinema, la musica, la fotografia: tutto può diventare un input per generare nuove idee. E allora oltre a grandi scrittori come Lansdale, Palahniuk, Moresco o la Flynn, mi vengono in mente Spielberg, Coppola, Tarantino o musicisti rivoluzionari come Bowie e Radiohead. Insomma, tutto quello che chiama una rivoluzione influenza chi ne subisce l’onda d’urto. Questo è capitato e capita anche a me come persona e quindi inevitabilmente come autrice.
Alcuni tra i Suoi lettori più timorati sono rimasti un po’ basiti dalla presenza nel libro di scene assolutamente violente, votate alla vendetta più pura, dall’uso talvolta sensazionalistico del sesso, dall’eccessivo impiego di linguaggio scurrile. Come giustifica queste caratteristiche del Suo libro?
“Il Carnefice” aveva alla base un’idea respingente: il male che volevo raccontare, di cui m’interessava parlare, è uno dei più odiosi. Per far sì che il romanzo non risultasse troppo pesante o addirittura allontanasse il lettore, ho deciso di optare per uno stile più pop. Di colorare il mondo in modo quasi fumettistico così da poter affrontare l’argomento di cui mi premeva parlare senza disturbare o disorientare eccessivamente. In “La Star” invece non ho dovuto caricare così tanto le tinte: essendo un thriller psicologico la scrittura segue di conseguenza una linea più naturalistica.
Il successivo romanzo “La Belva” (Newton e Compton, Roma, 2013) realizza un sapiente intarsio di scene splatter e immagini di altissima poesia: se da una parte c’è un corpo slabbrato con la materia cerebrale riversa sul terriccio, dall’altra la tenera storia degli elefanti che elaborano un linguaggio capace di mettere a punto nuovi barriti per imitare i suoni dei tir dell’autostrada vicina o chiedere aiuto a quelli che credono essere loro simili. Come è riuscita a far dialogare questi elementi senza stonature nel tessuto linguistico e senza strappi nell’impianto narrativo?
“La Belva” è un romanzo di formazione con forti tinte horror in cui tutto viene raccontato dal punto di vista di un’adolescente sul cui mondo si allungano ombre spaventose. Ed è proprio quel momento di passaggio, in cui non si è più bambine ma non ancora donne, che volevo ritrarre, quel mondo ancora fanciullesco, ingenuo e puro, in cui però inizia a incombere la realtà con tutte le proprie storture. Il linguaggio oscilla tra poesia e crudo realismo come oscilla la protagonista, dalla innocenza dell’infanzia alla disillusione dell’età adulta.
Il Suo ultimo libro è il romanzo “La star” (Giunti, Firenze-Milano, 2024), «un thriller agghiacciante e adrenalinico che con grande tensione narrativa rappresenta i meccanismi perversi dei mass-media in un vortice ricco di ombre, ambiguità e sorprendenti colpi di scena» (dalla quarta di copertina). Qual è stato l’input creativo che Le ha suggerito questa storia? Che cosa può dirci di questo titolo? E perchè ha scelto proprio l’isola d’Elba come ambientazione del romanzo?
Sono cresciuta negli anni novanta, e per me le star erano le attrici e gli attori hollywoodiani, le rock star, e gli straordinari sportivi dell’epoca. Ero abituata a vedere i loro volti nelle copertine delle riviste e negli schermi televisivi. Poi intorno all’inizio degli anni 2000 ho notato che il trend è cambiato. Sulle riviste, nelle televisioni e poi nel web a riempire lo spazio erano sempre di più i volti delle persone comuni resi tristemente noti dalla cronaca nera: volti di vittime, per lo più donne. Ed è da qui che prende il titolo questo romanzo: mi sono chiesta che cosa sarebbe successo se una di queste vittime, una di queste donne, fosse riuscita (riuscisse) a farcela. Che seguito avrebbe avuto, con un pubblico già abituato al suo volto e alla sua storia? Quella donna, quella sopravvissuta, non sarebbe diventata a tutti gli effetti una star?
Per quanto riguarda l’ambientazione, era da molto tempo che desideravo ambientare un romanzo all’isola d’Elba, luogo a me particolarmente caro. Quando ho avuto l’idea di “La Star” sapevo che era la storia giusta per l’isola. Poichè il romanzo vive e si sviluppa nel mondo del web, mi serviva un contraltare al mondo digitale e l’isola mi sembrava perfetta a questo scopo, tanto che è diventata una vera protagonista della storia: se da una parte nell’opera la perversione del web cresce in ferocia e aggressività, dall’altra l’Isola d’Elba (un’Elba descritta non come siamo abituati a immaginarla, assolata e assediata dai turisti per la stagione estiva ma al contrario fuori stagione, sferzata dai venti, dalle piogge e dalle mareggiate) incarna un altro tipo di pericolo, un pericolo che ormai siamo abituati a sottovalutare, quello della natura che s’inselvatichisce, cieca nella sua potenza che potrebbe, in ogni momento, diventare devastatrice.
Soffermiamoci su quest’ultimo romanzo. A pag. 10 dell’opera è riportata una frase molto significativa: «ci si vende anche l’anima per opportunità del genere, e forse era esattamente quello il prezzo che si sarebbe ritrovata a pagare». Lei crede, con il narratore del romanzo, che tale morale opportunistica e utilitaristica rispecchi l’andazzo del giornalismo di oggi e che il sensazionalismo rappresenti la nota dominante della cronaca attuale? Quanto sono altresì importanti le implicazioni etiche in quello che si scrive e nel modo in cui si fa?
Il mestiere è in mano a chi lo esercita. Questo vale per qualunque professione e dunque anche per il giornalismo. Io provo un’enorme stima per i giornalisti d’assalto, i giornalisti di nera che non permettono al mondo di dimenticare e sostengono le famiglie nella ricerca della verità e, di stretta conseguenza, di giustizia. Ammiro profondamente, per esempio, trasmissioni come “Chi l’ha Visto” che non hanno permesso che si spegnessero i riflettori su casi che altrimenti sarebbero finiti nel dimenticatoio e stimo quei giornalisti pronti a perpetuare la ricerca della verità anche sotto minacce vigliacche. Ma, come c’è chi fa bene, inevitabilmente c’è chi fa meno bene, ed è quel tipo di narrazione del dolore che rischia di anestetizzarci anche di fronte al più miserabile dei crimini.
Noi, come membri di una società che vuole definirsi civile ed evoluta, non dovremmo a mio parere abituarci all’ingiustizia, al sangue, alla morte ingiusta ma dovremmo essere combattivi, sempre in allerta, senza trovare giustificazioni o sporcare il linguaggio. Spero di non sentire o di non leggere mai più frasi vergognose come «l’amava troppo, per questo l’ha uccisa». Questo tipo di narrazione distorce la percezione del movente, sposta i riflettori della realtà ed è rischiosa, rischiosissima per la società tutta.
Ancora nel romanzo “La star”, poco più avanti si legge che «ci sono occasioni nella vita in cui dire di no non è contemplabile.». C’è mai stata nella Sua vita un’occasione in cui non si è potuta tirare indietro e ciò ha radicalmente cambiato il corso della Sua esistenza?
Devo essere sincera: il no per me è sempre contemplabile, almeno in ambito professionale. Non mi sono mai forzata a fare qualcosa, nella scrittura, che non sentissi nelle mie corde. Se voglio essere onesta con le lettrici e i lettori, devo come prima cosa esserlo con me stessa nella mia professione.
Quella delle Sue pagine è una scrittura perturbante, ma anche, a tratti, dall’ironia sottile. Bellissima la tessitura del linguaggio, conturbanti le atmosfere cupe e tetre, forti e disorientanti i contenuti. In quali di questi pregi di scrittura Si riconosce di più?
Nell’ironia: se della mia scrittura arriva l’ironia vuol dire che sono stata onesta.
Leggendo le Sue opere la prima impressione è quella di una scrittura che affonda dentro la vita e non ha paura di dire. In che rapporto sono vita e scrittura? Quale viene prima (ammesso che esista una primazia dell’una sull’altra)?
Nei miei romanzi c’è il mio punto di vista sul mondo che abito, e questo è inevitabile, con tutte le domande che mi vengono sulle ingiustizie che lo percorrono. La paura non dovrebbe mai esserci nell’esporre il proprio punto di vista, e non mi è mai venuto in mente che un argomento piuttosto che un altro potessero essere ‘scomodi’ e danneggiarmi.
Rispetto invece al rapporto tra realtà e finzione, ci sono nei Suoi romanzi personaggi storici o vicende ispirate a fatti reali?
No, non ho mai attinto a vicende realmente accadute.
Si dice che ogni autore scriva per tutta la vita la stessa opera. Ammesso che sia vero, che cosa muove la Sua scrittura? C’è un tema, un filo conduttore o uno stato d’animo che ispira la Sua scrittura e che non manca mai in nessuna delle Sue opere?
Per quanto mi riguarda sono piuttosto sicura che il filo conduttore che muove i miei romanzi sia la ricerca di una qualche giustizia. La voglia delle protagoniste di non essere relegate al ruolo di vittime. Cosa che in una società evoluta non dovrebbe succedere, tantomeno con questa frequenza vertiginosa.
È per questo che i personaggi principali dei Suoi romanzi sono sempre donne?
In quanto donna è inevitabile che per me sia più naturale raccontare una storia dal punto di vista femminile. Inoltre, in quanto scrittrice di thriller, analizzando i dati statistici mi sono accorta che a seguire questo tipo di storie - i thriller, i true-crime, gli slasher, le vicende di cronaca nera - è un pubblico in larga misura femminile. L’essere umano è, ormai da tempo, arrivato in cima alla catena alimentare e non ha più da temere altro predatore all’infuori di sé stesso. Ormai l’unico predatore dell’uomo è l’uomo stesso. E, stando a quanto emerge dai dati, le donne sono le prede abituali. Si potrebbe pertanto ipotizzare che le donne guardino al true-crime, al thriller e allo slasher come a uno strumento per capire e riconoscere dove è per loro il pericolo. Forse fruire questo tipo di storie, approfondirle, analizzarle, studiarle è solo un tentativo per noi donne di risalire alle fonti del male per capire come riconoscere il nostro predatore naturale e cercare di salvarci.
Effettivamente le Sue storie non temono di tirar fuori la bestia, il lato oscuro del mondo, il demone nero. Che funzione ha il male?
Il male è sempre esistito: nelle mie storie provo in qualche modo a scovarlo, a capire dove si nasconda, per riconoscerlo ed evitare che ci predi.
La narrazione del male è un tema complesso e di difficile approccio: Lei propende per una lettura dicotomica del rapporto tra bene e male o nella Sua opera a prevalere sono le zone d’ombra e le ambiguità, siano dei personaggi o dei fatti? Ad esempio, molti dei suoi personaggi sono individui ambigui e potenzialmente pericolosi (così Arianna Canè, protagonista dell’ultimo romanzo “La star”). Bene e male sono dunque polarità nettamente distinte o si creano commistioni tra l’una e l’altra?
Credo che ci sia una distinzione netta fra chi decide di muovere il male e chi invece cerca di non creare dolore e questa mia convinzione si riflette molto nei miei romanzi e nei personaggi che li abitano.
Qual è la caratteristica peculiare del thriller, dell’horror e del noir italiano, se ne esiste una?
Sono molto realistici, tendono alla denuncia più che all’intrattenimento. Io credo che abbiamo delle straordinarie autrici e straordinari autori nel nostro panorama e questo, in questo periodo storico, ci rende fortunati.
Ha ancora senso, oggi, parlare di letteratura di genere?
Sì, certo, non foss’altro che per aiutare i lettori a trovare ciò di cui hanno voglia. Questa distinzione non dovrebbe creare letterature di serie A e B; basterebbe a dimostrarlo la storia della letteratura e le opere, di diversi generi, che hanno attraversato il tempo.
Crede che il Suo nome rimarrà e sarà citato in futuro tra quello dei grandi maestri del noir italiano? Perché?
Non me lo chiedo. Faccio il mio meglio, questo sì.
Qual è l’identità di scrittrice che più La riflette? E quali sono le opere a cui tiene maggiormente?
I miei romanzi sono tutti molto diversi l’uno dall’altro. Tengo a tutti, ho lavorato molto a ogni storia. Spero che la mia voce venga fuori in ognuna di esse, anche se così differenti.
Lei cura un corso di scrittura presso la scuola di scrittura “Corsi Corsari”. Crede nell’utilità di questi corsi di scrittura creativa? Prima del Suo esordio ha seguito un corso del genere? Ha trovato veri e propri maestri all’interno di tali ambienti?
Ho frequentato la scuola Holden e il Barbarano Cinelab. Per fare qualunque mestiere bisogna studiare. Anche per scrivere è necessaria una formazione.
Per chiudere, una domanda banale ma che non si può non fare a ogni scrittore che si rispetti: come è quando ha capito che la scrittura La chiamasse a sé?
L’ho sempre amata, e quando ho scoperto che quello della scrittrice era un mestiere ho chiesto a mia madre se al posto dell’Università avrei potuto frequentare la scuola Holden. Lei ha risposto di sì, e per questo, per il senso profondo della libertà, per non avermi mai disilluso dicendomi che il mio era un sogno ma che era possibile, per la filosofia di vita piena di coraggio che mi ha mostrato, io non finirò mai di ringraziarla e amarla.
Manuel Omar Triscari e Angela Anconetani Lioveri