L’Osteria “da Libertaria”, nata come bettola e tale rimasta fino alla fine degli anni settanta, può ben dirsi un pezzo di storia dell’Elba operaia e antifascista.
Frequentata da comunisti, socialisti, anarchici e più in generale da perseguitati politici, durante la dittatura del ventennio era il ritrovo di chi, per sopravvivere, si affidava al Soccorso Rosso, una organizzazione internazionale di solidarietà, nata per fronteggiare i gravi disagi causati dalla repressione fascista; mentre all’indomani della fine della guerra, da qui presero avvio le proteste e poi le manifestazioni della città contro la chiusura degli altiforni che culminarono con una vera e propria sollevazione di popolo, a cui fu risposto con cariche della polizia, pestaggi, arresti. E alla testa di tutto c’era sempre lei, Libertaria, una specie di Dolores Ibàrruri elbana, come la leggendaria “Pasionaria” della guerra civile di Spagna che innalzò il proprio grido antinfranchista “no pasaran”. Per quindici anni segretaria del Soccorso Rosso si impegnò, giorno dopo giorno, a sfamare chiunque ne avesse bisogno, e poi ad incitare alla lotta contro le ingiustizie e i soprusi dei “padroni”, come li chiamava lei, che fossero il direttore dello stabilimento siderurgico o i capi dei partiti governativi non faceva differenza, pronta a sfidare la celere di Scelba e a farsi arrestare, come avvenne nel 1948 durante una manifestazione di protesta in piazza Cavour, contro un comizio del ministro democristiano Giuseppe Togni.
Nella piccola bottega, inadeguata per l’imponenza della sua mole grassa e ingombrante, convenivano persone di ogni specie, anche artisti, pittori, poeti, ma per lo più operai e pensionati, diseredati, emarginati e accaniti bevitori, residui di una cultura anarchica dura a morire che ancora sognava una società di liberi e uguali, quella predicata da Pietro Gori ed Enrico Malatesta che non a caso, con l’immagine di Bakunin, troneggiavano dalle pareti della bettola.
“Noi anarchici”, diceva spesso Libertaria, “non abbiamo combinato un’acca in tanti anni di storia, secoli. Colpi di testa da dilettanti e chiacchiere, tante chiacchiere da avere secca la gola, se non avessimo l’abitudine di prenderci solenni sbornie. Ma perlomeno siamo rimasti quelli di sempre, di quando si aveva vent’anni, e nessuno ci cambia la testa. Con noi, non attaccano i tempi moderni della rivoluzione. Vanno a dire che oggi è una scienza, ma per noi la rivoluzione è sempre una corda dei sentimenti”.
Qui nacque l’idea della Repubblica dell’Arcipelago. Ce la descrive Giulio Caprilli con un fantasioso e divertente dialogo fra lui stesso ed alcuni anarchici, abituali frequentatori della bettola di Libertaria, in uno dei suoi più bei racconti.
“Una bella repubblica con una bella flotta”, disse Pilade che si faceva chiamare Charles Morgan, “il quartiere dell’ammiragliato lo farei a Montecristo: mi piace il nome di quest’isola. Libererei tutti gli ergastolani di Portolongone dalle grinfie schifose dei loro aguzzini. Libererei quelli di Capraia, di Pianosa e di Gorgona e ne farei un equipaggio più coraggioso e nobile di tutta la storia della navigazione piratesca.
Gli assassini di Portolongone vanno sui ponti di comando; i ladri di Capraia li rifilo dritti dritti nelle sale macchine e guai a chi sgarra. I truffatori di Pianosa stanno bene ai posti di manovra, esercitati come sono alla destrezza. I ruffiani, le spie e i manutengoli, e gli sfruttatori di donne, saranno ciurmaglia da macello. Sono gente di poco conto e senza onore, ma un’occasione per farsi belli voglio darla anche a loro…
Nei nostri viaggi in Oriente acquisterò le spezie che usano i sultani per profumarsi i cibi e quelli con cui si profumano le mogli”.
“I vini sono quelli delle nostre isole”, dissi io, “specie se c’è stata un’estate piena di sole e lunga come la vogliono i contadini di Capoliveri”.
“Anzi”, fece Pilade che aveva colto al volo l’idea, “porteremo ai sultani orientali qualche nostro fiasco”.
“L’aleatico dei capoliveresi”, mi venne in mente di suggerire perché era il vino che mi piaceva di più.
“Il moscato”.
“Il sangioveto”.
“Il procanico”.
“Che razza di vini c’è in queste nostre isole!”.
“E come sono bravi questi grulli di contadini!”.
“Come quelli francesi, che ci si fa il cognac!”.
“Sarà anche la loro repubblica, e avranno pagato il vino delle botti meglio di oggi”.
“La repubblica di tutti, contadini e no. Basta che siano isolani”.
Poi, poco dopo, Pilade disse che ci mancava una bandiera.
“Una bandiera da far sventolare sui pennoni delle nostre navi”.
“Da issarsi sulle torri saracene di tutte le coste”.
“Sui castelli medicei delle colline”.
“Sui fari che segnano la strada dei navigatori”.
“Sulle tamerici delle spiagge, quando soffia il maestrale d’estate”.
“Il libeccio d’autunno”.
“La tramontana d’inverno”.
“Il provenzalino di primavera”.
“Sulla cima del Monte Capanne, a mille e diciannove metri sul livello del mare”, dissi io fresco di studi.
“Su ogni ciminiera degli altiforni”.
“Questa bandiera c’è ed è bella”, dissi io, che intanto me l’ero subito inventata, “ricorda quella di Napoleone: banda rossa di traverso su fondo bianco e tante api d’oro quante sono le isole che si aggregheranno alla nostra costituzione”.
“Bella davvero”, fece Pilade, “la vedo già e mi sembra un alveare, addirittura, con tutte quelle isole che staranno a fare questa repubblica”.
Più avanti, nel racconto, Caprilli ritorna sull’idea della repubblica dell’arcipelago con una riflessione più seria e meditata, che lo porterà successivamente a riproporla, come progetto politico, durante la sua breve e sofferta militanza nel Partito comunista italiano.
“Una sera”, scrive Caprilli,” pensai e sognai una repubblica dell’arcipelago, per me e per tutti quelli soffrissero sotto una qualunque pena della vita. Di infelici nell’arcipelago ve ne sono un po’ dappertutto, sparsi nelle isole del gruppo. Sono i reclusi dei penitenziari e delle terre dove vivono i tubercolotici condannati a vita, i minatori che scavano a picconate la roccia ferrosa a strapiombo sul mare, i contadini che coltivano la poca terra sui declivi della costa e le vigne tenute dritte dai muretti a rompicollo sull’acqua, i pescatori, i vecchi, e infine i ragazzi, quelli che hanno il sole del mondo nella testa che sentono scoppiare dalla voglia di andarsene. La repubblica dell’arcipelago doveva essere la loro repubblica”.
Chi fosse Giulio Caprilli, scrittore, saggista, ma soprattutto poeta, pochi elbani lo sanno. Eppure meriterebbe attenzione e conoscenza da parte di un più largo pubblico, per quel che ha scritto e per il valore dalla sua opera letteraria, per l’ampio respiro che la distingue, per il travaglio spirituale che l’ha partorita, per il coraggio e la libertà che la nutrono.
E di poesie ne scrisse molte e molto belle, parecchie dedicate alla sua isola, struggenti di malinconia (…un tramonto che non finiva mai – nemmeno ad occhi chiusi…) o aspre e dolorose (…straniero mi riconosco – nella mia terra. Mi risento vivo – soltanto nel ricordo – di poche cose possedute…) o attratte e stupite per la violenza della natura (se questo mare non finirà di urlare – stasera contro la roccia immortale – io non udrò cantare il mio ragazzo – alla luna)..
“C’è ancora chi sostiene che la poesia non è più cosa del nostro tempo”, scrisse in un altro dei suo straordinari racconti, “ma in essi l’umanità non è più grande della voglia di andarsene a letto con una qualsiasi, basta che sia. E forse, anche se è così, può darsi che non sia nemmeno una cosa tanto sbagliata. Tante sono le cose che non si capiscono e può darsi davvero che la poesia non sia più cosa utile. Ma la cosa peggiore sarebbe se i poeti smettessero di essere poeti, perché allora non ci sarebbe più rimedio”.
La repubblica dell’arcipelago era ed è rimasto un sogno, che solo un poeta poteva sognare, ma che altri, che poeti non erano, tentarono di realizzare, prima ancora che Giulio la immaginasse nella sua fertile fantasia. Alla VII Triennale di Milano del 1940, un prestigioso studio di architettura composto da quattro progettisti italiani, Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers, presentò un piano di sviluppo turistico dell’area ed espose un plastico dove si prefigurava un primo importante passo verso l’unità politica e amministrativa delle isole dell’arcipelago attraverso la costituzione di un comune unico dell’Isola d’Elba.
Settantaquattr’anni dopo, nel 2014, un referendum popolare ha detto no all’ipotesi degli urbanisti mandando in frantumi il sogno di Giulio. Ma per fortuna i poeti non hanno smesso di essere poeti, e finché sarà così, nessun referendum, qualunque esso sia, potrà mai impedire loro di continuare a sognare.
(estratto dall’omonimo capitolo del romanzo “La Fatica della Politica”, Persephone Edizioni, 2015)