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Audace vino nero… Vinceremo (l'eleganza di Neghibbe)

Scritto da  Michele Melis Venerdì, 14 Marzo 2025 09:52

L’Audace, dall’alto dei suoi 120 anni di storia, può vantare un sacco di cose, tra cui anche il fatto di avere un inno ufficiale.
La canzone, intitolata “Audace vino nero” fu realizzata da Stefano Tanghetti nella primavera del 2008, durante il campionato di 2^ categoria, in seguito vinto, dalla squadra portoferraiese allenata da Leo Lupi.
Gli fu commissionata da un giocatore dell’epoca, Lorenzo Frangioni, il quale chiese esplicitamente un inno brioso che, tra le altre cose, doveva dare atto che giocassero in cambio di pizza e birra (senza limiti in caso di vittoria), dal momento che non erano stipendiati, nonostante fossero i più forti giocatori elbani di quel periodo.
Per fare un esempio: una volta, a partita in corso, a gioco fermo un difensore avversario domandò al centravanti biancorosso Riccardo Mameli: “Ma voi quanto prendete?”. La risposta lo lasciò basito: “Quello che piglia di più la pizza gliela portano con wurstel e cipolle!”.

Tornando alla canzone, il Tanghetti accettò di buon grado: riprese il vecchio grido da curva “AUDACE VINO NERO” e ci scrisse intorno il testo di quello che sarebbe diventato l’inno.
Insieme a un suo collaboratore (Andrea Ferro) incisero la prima versione per farla ascoltare e imparare a memoria ai giocatori e poi, ispirandosi all'inno dell'Inter cantato dalla squadra, portarono l'attrezzatura da registrazione al Rifrullo per una di quelle cene: i giocatori cantarono una strofa ciascuno e il coro in gruppo.
Le voci fuori campo sono di Emanuele Scelza, che imitava gli urli dei vecchietti che tutti noi abbiamo sentito al campo sportivo durante le partite dell'Audace.

Questo il link per l’ascolto - Inno Audace

Ma andiamo a ritroso nel tempo per scoprire dove e come nasce il motto originale “AUDACE VINO NERO”.

Al giorno d’oggi col telefonino ci si fa veramente di tutto, ma cinquanta e passa anni fa scattare una fotografia era un evento raro, anche perché non tutti possedevano una macchina fotografica e quasi nessuno se la portava dietro.
A inizio anni Settanta fu deciso di scattare una foto a un personaggio, un indiscusso pezzo da novanta, rinomato soprattutto per la sua grande passione: trincare. Sempre e dovunque.
Trovarlo sobrio era un’impresa pressoché impossibile, così un giorno il collegio dei probiviri deliberò che cotanto splendore andava immortalato, all’ora di punta per l’aggiunta, quando cioè la sbronza toccava il picco massimo.
Il lascito per i posteri doveva essere inequivocabile, cristallino.
Furono oltrepassate le intenzioni e lo scatto che ne conseguì fu magico: il personaggio in questione, conciato per le feste, aveva, come da prassi, il viso avvampato di un colorito rosso porpora e stava ridendo sguaiatamente col capo rivolto leggermente all’indietro, mostrando parimenti la sua maestosa arcata dentale: il canino superiore di destra, l’altro di sinistra e stop.
Era praticamente sdentato, e le fiatate etiliche da mangiafuoco che lanciava, senza nemmeno il filtro dei denti ad attenuare un pochino il colpo, erano letali.
Non sarà stata quella una foto da premio Pulitzer, ci mancherebbe, ma forse a Portoferraio, per il peso specifico assunto, in un certo senso valeva anche di più.

Quella foto, quindi, dopo essere stata sviluppata, venne ingrandita e appesa al muro di un posto dal fortissimo, all’epoca, valore simbolico: il Bar Sport.

Due piccoli aneddoti per rendere l’idea di quanto il Bar Sport fosse la culla del tifo biancorosso.

1 - Nel tardo pomeriggio del venerdì, al termine dell’ultimo allenamento settimanale della prima squadra dell’Audace, quando la società diramava l’elenco dei convocati per la partita, il foglio non veniva affisso nella sede al Carburo, ma direttamente al Bar Sport.

2 - La domenica pomeriggio, subito dopo la partita, se la squadra aveva vinto (o non perso in trasferta: nell’era dei due punti a vittoria, anche il pareggio fuori casa era grasso che colava) veniva issata fuori dal Bar, in Via Manganaro, la bandiera dell’Audace. Quando ancora non c’erano i telefoni cellulari, né tantomeno internet, l’informazione veniva divulgata semplicemente così, pertanto, se alle cinque del pomeriggio non era ancora stata issata la bandiera biancorossa fuori dal Bar Sport, era segnaccio.

La spettacolare foto del personaggio avvinazzato stette esposta lì al Bar Sport un po’, quanto bastava per stuzzicare l’estro di qualcuno che, con anonima e fatata mano, ci vergò accanto, in stampatello, uno slogan di tre (il numero perfetto) parole: “AUDACE VINO NERO”.
Va da sé che questo geniale slogan fu traslato - tra poco andremo nel dettaglio - al campo sportivo.
Già, il campo sportivo.

Negli anni Cinquanta il turismo era agli albori, la guerra aveva lasciato il segno e non aveva fatto sconti a nessuno, la maggioranza della popolazione ferajese, composta da famiglie numerose, faticava a mettere insieme il pranzo con la cena, ma lo spirito di rivalsa sociale era forte e trovava sfogo in ogni dove, anche al campo sportivo.
In quel contesto la squadra di calcio rappresentava fortissimamente il paese e il paese l’Audace la sosteneva in ogni modo.
Il coinvolgimento popolare era incredibile, tant’è che alla domenica a tifare Audace c’erano centinaia di persone assiepate per tutto il perimetro del rettangolo di gioco, non come adesso dove la partita la si può guardare da un lato solo, sia pur fruendo di una tribuna comoda e coperta.
Originariamente, lato Carburo, la base stessa del muro dello stabilimento, con il suo paio di gradoni (foto 2 si intravede qualcosa), era di per sé una tribuna naturale, lunga una quarantina di metri (come si vede nella foto di copertina - Anno 1959/1960. Calcio di rinvio di Beppe Frangioni. Lo stabilimento del Carburo sullo sfondo).

 

foto 2   Audace anno 1965 1966

Anno 1965/1966. In piedi da sin.: Menghini G., Nurra R., Reami E., Senesi R., Arrostini P., Medri C.,
Accosciati: Giugia F., Marconcini P., Frangioni G. (cap), Zamboni L., Montauti G.

 

Negli anni Sessanta quella tribunetta fu coperta, per circa la metà, da una pensilina; per il resto i tifosi si arrangiavano, come detto, a bordo campo.

 

foto 3   Audace anno 1971 1972

Anno 1971/1972: In piedi da sin.: Bacci Luciano, Zamboni Mario, Nurra Riccardo, Arrostini Piero, Giardini Marcello, Medici Paolo, Falagiani Giuliano. Accosciati: Frigerio (mass.), Melis Mosè, Frangioni Gianfranco, Benti, Beguelin.


Però la gente era tanta e tutta non ci stava, sicché nei primi anni Settanta fu installala nel lato opposto una tribuna in ferro, coperta, la cui tettoia in lamiera era bassa, talmente bassa che sistematicamente gli occupanti dell’ultima fila la percuotevano con le mani, creando alla bisogna un fracasso assordante.
La capienza era di 400 posti, ma quel numero è solo teorico e naturalmente poteva succedere che la tribuna fosse stivata all’inverosimile.

 

foto 4   Audace vecchie glorie

Anno 1976/1977. In piedi da sin.: Melis M., Medici P., Zamboni M., Falagiani G., Calafuri M., Giardini M., Viacava L.
Accosciati: Matacera C., Guerra E., Paglia E., Bacci L., Ghini C., Nurra R.

 

foto 5  Audace anno 1976 1977

Audace vecchie glorie. In piedi da sin.: Nuti Renzo, Calafuri Carlo, Badiani, Montorsi Stefano, Filippi Piero, Giardini Marcello, Frangioni Giuseppe, Lazzerini Graziano, Medri Carlo, Foresi Umberto, Tollari Luciano, Carlotti Doriano, Novembrini G. Carlo, Mazzantini A.
Accosciati: Giacomelli Marcello, Zamboni Lamberto, Francini Emilio, Melis Mosè, Frangioni G. Franco, Zamboni Sergio, Tanghetti Dino, Arrostini Piero, Giuffra Giovanni.

 

foto 6   Derby Audace Capoliveri

Derby Audace - Capoliveri anno 1979/1980

 

Era quello un tifo genuino, passionale, incandescente: il Carburo era veramente una bolgia.
Di frequente si levavano al cielo anche dei cori in cui, nella maggior parte dei casi, l’arbitro costituiva il bersaglio naturale.
Due su tutti:  Uno iniziava  “OHHH OHHH ARBITRO, OHHH OHHH ARBITRO .... (NDR seguivano parole che mettevano in forte dubbio la moralità della incolpevole genitrice del Direttore di Gara) e, quando questi non si presentava con una silhouette, diciamo così, slanciata: “BUZZO DI SARPA, BUDELLO DI TU MA!’” (rit. una volta sola, ma scandito bene).
Con quel pubblico lì tutto era possibile e la vigilia di ogni partita casalinga veniva vissuta dagli sportivi del paese con un’attesa quasi spasmodica, per un semplice motivo: la partita dell’Audace al Carburo, ogni quindici giorni, era assimilabile a una festa di popolo.

Si è andati avanti in questo modo fino alla fine degli anni Ottanta, quando il Carburo - un campo solo e sterrato, tenuto bene sì ma sterrato - venne dismesso per far posto al complesso attuale.
Una frangia del pubblico, però, si distingueva dalla massa perché la partita la seguiva con scanzonatezza e, più che assieparsi, si accampava proprio dietro le porte.
Nel senso che era una perpetua degustazione, sia gastronomica (pane, formaggi, salumi, carne alla brace, pentolone col polpo lesso e chi più ne ha più ne metta) che enologica, dove, è sottointeso, a scanso di equivoci veniva dispiegata da subito l’artiglieria pesante (fiaschi e damigiane surclassavano lattine e bottiglie).
Ed era la regola, non l’eccezione.

Altro che festa di popolo… per costoro la partita dell’Audace era un rito pagano.
Si accampavano, dicevamo, dietro le porte, tutte e due, certo, a turno: aspettavano l’esito del sorteggio con la monetina per vedere se il capitano - nel corso del tempo, di norma: Beppe Frangioni, Luciano Bacci, Riccardo Nurra, Mario Zamboni, Guido Anselmi - aveva scelto palla o campo e poi, mentre le squadre si schieravano, loro si incamminavano.

Si dirigevano dietro la porta degli ospiti per due ragioni:
1 - vedere da vicino il gol dell’Audace.
2 - rompere i coglioni al portiere della squadra avversaria (Es. “Occhio! Arrivano!”, “O che ci sei venuto a fa’?”, “Zitto sennò ‘un la pigli la nave!”).

Poi, alla fine del primo tempo, il puntuale trasloco verso la porta opposta, con tutto l’armamentario portato a spalla e sottobraccio, a mani vuote non c’era nessuno.
Per il portiere avversario quei novanta minuti erano un calvario.
Cori da stadio non ne facevano, però a un certo punto, rifacendosi ovviamente all’originario slogan coniato al Bar Sport, dal niente uno se ne usciva con un forte bercio: “AUDAAACE!”.
Con egual moneta, un altro, di rimando: “VINO NEEERO!”.
A quel punto, tutti insieme intonavano all’unisono: “AUDACE VINO NERO VINCEREMO!”.
Quattro parole stavolta, la saggezza popolare completò l’opera aggiungendone una.
Fu ricavato il verbo facendo, delle quattro operazioni, la più facile, l’addizione.
Della serie: abbiamo l’Audace, abbiamo il vino nero, cosa vuoi di più? Come si fa a perdere? Vinceremo!
Dalla tribuna, guardando verso loro, si distinguevano dozzine di pallini bianchi sospesi nel vuoto: erano i ferri del mestiere che venivano salvaguardati, ovvero sia i culi dei bicchieri di plastica venivano incastrati tra le verdi maglie della rete di recinzione, per evitare di farli svolazzare al vento.

Poi la partiva finiva, con l’Audace che in casa non perdeva praticamente mai, perché la legge del Carburo era inflessibile - per capirsi: capitava, eccome se capitava, che il risultato venisse acquisito, ancor prima che sul campo, nel famigerato sottopassaggio - e la maggior parte del pubblico tornava a casa.
Loro no, almeno non necessariamente, potevano anche starsene ancora un po’ lì in gozzoviglio e infine, sovente, il rito pagano si esauriva con la processione.
Si incamminavano lemme lemme verso il centro storico, soltanto che facevano tappa (tappe) verso luoghi non esattamente di culto: bar e bettole (numerose in quel periodo), perché, una volta ammainata con vanto la bandiera dell’Audace, c’era comunque da onorare il vessillo del vino nero.

Apriamo una piccola parentesi, il vino, all’epoca, era o bianco o nero. Punto.
E anche se l’etichetta di qualche bottiglia più o meno pregiata riportava: “Rosso di…” il vino rimaneva in ogni caso nero. Guai, se qualche giovanotto si fosse azzardato a chiamarlo rosso sarebbero stati pattoni nel ceppicone.

Tra questi singolari tifosi c’era un personaggio, benvoluto da tutti, che ricordo con affetto, a cui ero affezionato, magari perché era stato battezzato con lo stesso nome di mia nonna (Natalina).
Ma veniva chiamato per soprannome e di lavoro faceva lo spazzino.
Neghibbe: un funambolico spazzino.
Era mingherlino, buono, gentile, generoso e ogni tanto suscitava lo stupore dei foresti che lo vedevano all’opera, sigaretta pencioloni tra le labbra, con fare raffinato e vestito di tutto punto - giacca, gilet, camicia, papillon, pantaloni stirati, scarpe lucide - intento a spazzare, ramazzare, raccogliere nel bidone e infine togliere il disturbo con quell’inseparabile apino che definire epico è poco.
I foresti erano ignari, non potevano sapere, e forse neanche immaginare, che la sera prima Neghibbe aveva presenziato a una cena “di gala”: per lui anche una semplice bisboccia tra amici poteva rappresentare un evento festoso che, se del caso, andava omaggiato col miglior abbigliamento possibile.
C’è un particolare: quelle cene spesso, e molto volentieri, si protraevano fino all’alba, così Neghibbe nemmeno andava a letto, non ne aveva il tempo, né la voglia, né il motivo.
Nessun problema, carico a molla faceva tutta una tirata e figuriamoci se perdeva un attimo a cambiarsi i vestiti.
Faceva dunque lo spazzino così, elegantissimo.
Che classe!

 

Foto 7   Neghibbe

Natale Ticchioni, per tutti Neghibbe

 

Michele Melis

 

Le foto 2, 3, 4, 5, 6 e le didascalie dell’Audace sono tratte dal libro di Agostino Anselmi “Audace - La Signora del calcio elbano” (pubblicato in rete su mucchio selvaggio), mentre la foto 7 di Natale Ticchioni dal volume (doppio) di Roberto Ridi “Quando sentivo le voci dei gabbiani“.

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Ultima modifica il Venerdì, 14 Marzo 2025 09:55