Nicolò Sponza dei “paladini”, era nato il 10 giugno 1940 a Rovigno d’Istria, dove era uso dare dei soprannomi alle famiglie. Il figlio maschio tanto desiderato dopo tre femmine, cresciuto in via Trevisol in città “vecia”.
“Ve prego no ste venir in redazion…se incontremo drio le machinete del cafè… che za i disi che voi xe de destra…se i ve vedi con mi xe finidi per sempre” (Vi prego non venite in redazione…ci incontriamo dietro le macchinette del caffè…già dicono che siete di destra…se vi vedono con me siete finiti per sempre).
Siamo alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, questo dialogo telefonico avveniva tra Nicolò Sponza e dei suoi amici che stavano andando a trovarlo in redazione a Milano. Il suo peccato, avere fatto un’inchiesta giornalistica sulle foibe e sugli eccidi commessi da partigiani italiani e titini sul confine orientale, rompendo un tabù durato 40 anni, raccontando verità scomode su italiani, croati e sloveni infoibati nelle cavità carsiche, spiegando che tra quei morti non c’erano solo fascisti, ma anche innocenti e partigiani colpevoli di non assecondare la linea filo-titina rappresentava una colpa grave. Amici e sostenitori di quel pensiero lo seppellirono sotto una valanga di lettere, denunce, comunicati, accusandolo di avere esibito notizie infondate o imprecise. Da quel momento colleghi e storici gli voltarono le spalle bollandolo come amico del fascismo.
Lui istriano puro sangue, figlio della Rovigno proletaria – dei lavoratori dell’Ampelea (fabbrica del pesce) e delle tabachine (fabbrica tabacchi) – orfano del padre morto in Sicilia in guerra, dove aveva parlato l’italiano e il croato, che aveva vissuto il dramma della pulizia etnica, non era mai stato fascista, al contrario, era stato comunista, aveva vissuto le antinomie di quel sistema, aveva conosciuto la tragedia dell’esodo, aveva studiato gli scritti di Milovan Gilas e, come lui, aveva preso strade diverse.
Le sue ricerche basate su documenti inediti, tirati fuori anche dagli archivi jugoslavi non potevano essere liquidati come un’invenzione, dovevano essere screditati, delegittimati per evitare di fare luce su quel buco nero della storia italiana. Una storia scomoda, volutamente dimenticata per decenni, che improvvisamente, come un fiume carsico, tornava.
Nicolò Sponza, personaggio immaginario come l’Olandese Volante, a cui un destino avverso impedisce di tornare nelle terre perdute, rappresenta l’inconscio collettivo delle genti dell’esodo. Il loro voler rimanere italiani a tutti i costi – testardamente – li porterà all’esodo di massa, in un’Italia povera, semidistrutta dai bombardamenti, appena uscita dalla guerra civile. Un’Italia matrigna che li considera fascisti, costretti a nascondere le loro origini per poter sopravvivere nei campi profughi sparsi per tutto il Paese.
La presa di coscienza, con cui si è assistito negli ultimi anni all’esodo, è dovuto al fatto che ci si è resi conto che amputando dal passato recente della nazione gli eventi delle terre perdute, si veniva a perdere il senso della nostra identità nazionale, del nostro cammino di unificazione dal Risorgimento alla Costituzione repubblicana, attraverso quella Prima guerra mondiale o Quarta guerra d’indipendenza, che aveva segnato il compimento dell’unità nazionale voluto dai padri del risorgimento. L’Italia rischiava di diventare un Paese senza memoria, in cui i processi di globalizzazione e di integrazione europea richiedevano una giusta dose di consapevolezza nazionale, per reggere le difficili competizioni che l’attendevano.
Fu soltanto nel 2004, che venne istituita nella giornata del 10 febbraio – Il giorno del Ricordo – in memoria dell’esodo e delle vittime delle foibe. Parlare, oggi, di esodo, significa valorizzare la storia di un territorio, quello adriatico, ricco di cultura e storia. Un territorio a lungo conteso da una popolazione, anzi, da due popolazioni, quella italiana e quella slava, dove la gente della sponda orientale dell’Adriatico ha pagato lo scontro tra due ideologie totalitarie, senza le quali il conflitto italo-slavo si sarebbe potuto risolvere in altro modo, senza una tragedia, senza ingiustizie collettive di tali proporzioni.
Parlare del 10 febbraio, dell’esodo, è necessario, è fondamentale, non tanto per un anacronistico ritorno al passato, quanto per conservare il ricordo di un evento che ci accomuna tutti dal primo all’ultimo proprio in quanto italiani.
Enzo Sossi