Due anni fa scrivevo su Elbareport in occasione del 1 maggio:
“Tante volte lo abbiamo detto conversando fra noi che non poteva durare. Le contraddizioni di un mondo che consumava l’ingiustizia e la diseguaglianza senza darsi un freno; che segava lo stesso ramo sul quale stava seduto; che si abbandonava senza moderazione al desiderio di accumulare qualunque cosa -denaro, potere, successo, consenso-; l’avevamo detto che quelle contraddizioni contenevano il segno inequivocabile della fine. Ci aspettavamo -nel nostro inguaribile “ottimismo della volontà”- che la collera dei poveri, come diceva Giorgio La Pira; o la Rivoluzione degli sfruttati; o la presa di coscienza degli uomini di buona volontà, sarebbero arrivati a porre fine alla corsa suicida di una società impazzita (e sempre più incapace di mantenere la promessa di un benessere diffuso, proposto come premio all’acquiescenza a un modello di produzione e di allocazione delle risorse iniquo e rapace). Non riuscivamo a immaginare come sarebbe accaduto, e ci pareva di cogliere segnali -anche forti- di cambiamento nelle crisi periodiche e sempre più frequenti del “sistema”. Poi, il sistema pianeta, che è più grande e potente dei sistemi umani, ha dato uno strattone: il Covid 19. Imprevedibile, incontrollabile, inarginabile. Come un gigantesco meteorite -lui, infinitamente piccolo-, come l’eruzione di un vulcano islandese, come un maremoto. Inspiegabile. In quaranta giorni è cambiato il nostro mondo. Nulla sarà più come prima, si è detto subito; ma ora lo sappiamo con certezza. Quaranta giorni, e l’umanità intera -oltre i contagi e l’insostenibile dolore per tutti quei morti- è stata colpita da uno sconvolgimento le cui conseguenze dureranno per un tempo lunghissimo, nel quale tutto dovrà essere reinventato. Quaranta giorni. Ora dobbiamo decidere se vogliamo ricostruire Varsavia com’era prima dell’ultima guerra, o se volgiamo riedificare una Berlino nuova per i tempi nuovi. Perché certo un’altra città ci aspetta, un’altra “civitas”, un’altra civiltà. Indipendentemente dalla nostra volontà e dal nostro intervento quella di prima è crollata. E se è vero che era lei il problema, come è stato detto acutamente, allora facciamo in modo che quella nuova sia migliore”.
Da quando scrivevo queste parole di giorni ne sono passati settecentotrenta, e sulla realtà è calato il manto plumbeo della “resilienza”. Il Covid è diventato un ospite assiduo, al quale in fondo ci si è abituati, e con il quale convivremo, forse per sempre. Nel frattempo abbiamo restaurato Varsavia, uguale a com’era prima della distruzione; non costruito una Berlino nuova e pensata per il futuro. Continuiamo a sapere che la civiltà che ci ha accompagnato all’appuntamento con il Covid era il nostro problema; ma è un problema noto, per il quale abbiamo mille analgesici, placebo, filtri e unguenti: non risolvono, certo, ma assorbendoli riusciamo ad andare ancora un poco avanti.
I più coinvolti nella crisi, i veri padroni di questo ordine, i “conservatori” a tutti i costi, quelli che più avevano da temere il cambiamento, dopo un attimo di sconcerto hanno messo in campo il trucco più vecchio della storia umana, il collante universale, la pietra filosofale, la vernice dell’invisibilità; anche ora in quaranta giorni o giù di lì, con un vecchio sortilegio, il mondo cambierà di nuovo, perché tutto resti uguale: dal cappello a cilindro del “Gattopardo” i grandi maghi hanno tirato fuori LA GUERRA. Armi, armi, armi -fabbricate, vendute, comprate-; e armamentario di dibattiti, cause, colpe, schieramenti; e parole: civiltà, Occidente, Oriente, patria, popolo, ideali, valori, ragioni, torti. E morti, soprattutto morti.
Facciamo in modo che almeno questa volta non trovi spazio -complice la distanza di sicurezza dalla tragedia che si svolge comunque “altrove”, che dilania “altri”, lasciandoci all’effimera allegria dei lunghi weekend e alla speranza della sospirata “ripresa”-, non prevalga l’abitudine allo strazio della distruzione, delle vite stravolte, dei pianti dei vecchi e dei bimbi; l’abitudine alla truce contabilità dei costi e dei morti. Facciamo in modo che a all’immenso dolore non segua la “ricostruzione” di quel che c’era prima, il ripristino dello “status quo ante” caro ai cantori della “resilienza”, la “conservazione” di una pace fondata sulla paura.
L’incantesimo della guerra arriva ovunque: pochi, credo, hanno dubbi su chi ha iniziato la guerra guerreggiata; e pochi, credo, hanno dubbi su chi ne sia la vittima; ma quasi tutti hanno anche una guerricciola personale, qualcun altro da accusare: d’essere schierato o non schierato, tiepido o ardente, d’essere “con noi” o “contro”, per “gli altri”. Così la guerra consuma il suo rito nell’inondazione di armi; mentre la politica, la diplomazia sfumano nella vecchia, nota Guerra Fredda -proprio quella lì del secolo scorso-, con la sua impotenza. E finalmente tutto torna “come prima”, con le divisioni verticali a ridosso dei muri, che comunque separano da chi sta di fronte; esorcizzando le divisioni orizzontali, quelle fra chi sta sopra e chi sta sotto, fra chi schiaccia e chi è schiacciato, quelle che ci fanno sentire “insieme” a chi cammina con noi.
E allora, proviamoci ancora a conquistare la nuova primavera dei Partigiani di ogni tempo e di ogni colore: la giustizia, l’uguaglianza, l’equità sociale, che sole danno sostanza alla libertà, alla pace. Ci aspetta una nuova Resistenza. Dovunque. Fischia il vento. Urla la bufera.
Buon 25 aprile, buon Primo maggio.
Luigi Totaro