25 Aprile: il testo del discorso celebrativo dell'ANPI elbana
Ci troviamo oggi per ricordare e celebrare un 25 aprile particolare, diverso per l’eccezionalità della situazione da quelli di cui tutti abbiamo memoria. Una guerra infiamma l’Europa, una guerra scatenata dalla barbara aggressione militare del regime putiniano e che sta tristemente riesumando orrori e gesti che pensavamo ormai sepolti nel cuore di tenebra del Novecento: guerra ai civili, fosse comuni, rifugi antiaereo, profughi di guerra, devastazione materiale e morale. Immagini presenti nell’infanzia dei nostri nonni o dei nostri genitori ritornano prepotentemente alla ribalta, sebbene siano state sempre intorno a noi, all’Europa felix e al suo ottantennio di pace interna e benessere materiale. Ma sarebbe bastato volgere lo sguardo al di là del mare o al vicino balcanico per accorgersi che quegli orrori, che quelle immagini, non ci avevano mai abbandonati. Sarajevo, Sebrenica, Grozny, Kabul, Misurata, le strade delle città irachene, Aleppo, lo Yemen, il Tigrai, il Mali, il Kurdistan martoriato: devastazioni che richiamano anche le nostre responsabilità, le responsabilità dei governi occidentali, le responsabilità della nostra sazia indifferenza. Alle stragi, alla violenza, alla crescita esponenziale dei nazionalismi, dei radicalismi ideologici di matrice religiosa, al culto mai sradicato del militarismo, per profitto o cinica politica di potenza. Ebbene, oggi la guerra ritorna in Europa, nel cuore dell’Europa, in una terra che da millenni è luogo di incontro, commistione e pacifica convivenza tra lingue, culture e popoli: quell’Ucraina che fu la culla della civiltà del suo stesso aggressore. E dunque quali valori devono guidarci di fronte al ritorno della guerra? Cosa ha a che fare il nostro tragico presente con il 25 aprile?
Gli uomini e le donne che il 25 aprile 1945 uscivano da uno dei conflitti più devastanti della storia dell’umanità avevano ben chiaro quale sarebbe stato il filo conduttore del futuro: mai più guerre. Questo solido intento portò alla nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il 24 ottobre 1945. Il medesimo intento animò il dibattito costituente nell’Italia che, scelta la Repubblica, si trovava a definire l’identità di una Nazione a pezzi ma libera dalla tirannia totalitaria e dalla cultura della morte fascista. Fu intorno ad un articolo della prima parte della Costituzione, l’articolo 11, che questo intento incontrò la mirabile chiarezza e concretezza della lingua italiana. Lo cito per intero:
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Usciti dall’esperienza atroce della guerra scatenata dal nazi-fascismo attraverso la guerra di Resistenza, i padri e le madri costituenti vollero condizionare il futuro, il nostro presente, con un indirizzo giuridico vincolante e non con una semplice dichiarazione programmatica. Ciò è evidente dalla scelta dei verbi presenti nell’articolo. L’Italia “ripudia” la guerra: con la scelta di un termine dell’antico diritto romano, dal sapore scritturale, vincolarono la Repubblica a rifiutare sdegnosamente il ricorso alle armi, la impegnarono per il presente ed il futuro a respingere decisamente “l’offesa alla libertà degli altri popoli” attraverso la guerra come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. I costituenti rifiutavano con questo verbo il legame tra Italia e guerra, un legame che invece il fascismo aveva reso intrinseco, consostanziale: l’Italia fascista era per il suo nefasto dittatore una nazione di militi lanciata alla conquista e al dominio del Mediterraneo. Non è un caso che le proposizioni successive dell’articolo, costituito da un unico comma, sono coordinate e non subordinate alla prima. Coordinate da due punti e virgola con i quali gli ex resistenti diventati deputati di un’Assemblea costituente volevano sottolineare gli ideali internazionalistici dell’Italia repubblicana e democratica: il ripudio della guerra si sostanzia (“consente” e “promuove”) nel dialogo e nell’impegno all’interno delle organizzazioni internazionali che hanno come unico fine la pace e la giustizia tra le Nazioni, anche al costo di limitare la ratio della propria sovranità. Si trattava della consapevolezza, acuta in chi aveva vissuto la tragedia del 1943-45, che l’unica possibilità per il futuro dell’umanità si sarebbe giocata sull’eliminare alla radice ogni possibilità di conflitto, nel dichiarare guerra alla guerra attraverso la tela del diritto e della collaborazione internazionale. Come sottolineò l’onorevole Paolo Treves, membro della Commissione che scrisse l’articolo 11: “purtroppo la nostra storia recente prova che ci possono essere attentati alla libertà dei popoli senza giungere alla formale dichiarazione di guerra, e nei quali sono coinvolte le forze, anche se non legalmente le truppe, di altri Stati” (atti Assemblea, seduta del 17 marzo 1947).
Quanto sono tristemente attuali queste parole. Quanto ancora oggi è necessario ripudiare la guerra. Con questa stessa consapevolezza si erano gettati nella Resistenza al nazi-fascismo uomini e donne che armati o disarmati negarono il futuro ad un Europa della guerra, del razzismo, del totalitarismo. Concludo con le parole scritte dal carcere fascista da uno di questi resistenti. Pedro Ferreira, giovane tenente di fanteria friulano passato nel settembre del 1943 alla formazione partigiana giellina “Italia Libera” operante in Valle Grana (Cuneo). Il giovane militare, come il nostro Ilario Zambelli, come il nostro Giordano Piacentini, fece una scelta che pagò con la cattura e la condanna a morte per fucilazione, il 23 gennaio 1945. Scrivendo la sua ultima lettera alla famiglia, Pedro Ferreira ci ammoniva:
[…] il vostro figlio e fratello è morto come i fratelli Bandiera, Ciro Menotti, Oberdan e Battisti colla fronte rivolta verso il sole ove attinse sempre forza e calore: è morto per la Patria alla quale ha dedicato tutta la sua vita: è morto per l’onore perché non ha mai tradito il suo giuramento, è morto per la libertà e la giustizia che trionferanno pure un giorno quando sarà passata questa bufera e quando dalle campagne devastate e le città distrutte volerà la colomba recante l’ulivo della pace e della concordia.
Viva la Resistenza, viva la Costituzione antifascista, viva la pace!
Marco Ambra
Segretario ANPI Isola d'Elba