Ho ascoltato l’intervista di Mentana a Bersani, e l’apatia e il fastidio per l’attuale situazione politica si sono un poco acquietati. Bersani è una brava persona, un uomo di partito nella tradizione berlingueriana e anche occhettiana, prima del leninismo ‘de noantri’ di Dalema, prima delle fantasie ‘americane’ di Veltroni, prima dei boyscout dell’AGESCI Franceschini, Letta, Renzi. Un uomo con i piedi per terra, con un’evidente passione politica, con un sincero disinteresse per la propria immagine di leader.
Certo, è Bersani!. L’idea di futuro che ha in capo riguarda domani, e forse domani l’altro. Più là non va; e per l’‘immaginazione al potere’ nutre la stessa diffidenza, lo stesso rifiuto intellettuale che cinquanta anni fa animava (si fa per dire) l’apparato del glorioso PCI. Non dirò della ‘Rivoluzione’, ma anche col cambiamento si proceda cautamente: ‘piano’, si leggerebbe su uno spartito musicale, più che ‘andante’. O ‘andante senza moto’. Ma per il cammino che ha in mente e che vorrebbe percorrere almeno ci si può fidare, lo si può capire senza equivoci, se ne sa la destinazione. Non è un ingenuo, Bersani; è tutt’altro che sprovveduto. E’ anche un progressista; ma appunto ‘senza avventure’, come usava una volta. Anche lui, come La Pira disse di Moro, quando nuota, nuota ‘a rana’.
Così, nell’intervista, non ha delineato luminosi orizzonti, non ha lanciato travolgenti parole d’ordine, non ha turbato né stupito nessuno; ma ha detto cose di grande buon senso; ha sollevato obiezioni fondate nella logica e nella storia; ha compiuto una analisi piana, motivata punto per punto, critica quando necessario e quanto necessario.
Due punti mi sono sembrati importanti: ci si lamenta della litigiosità politica, delle risse quotidiane in parlamento e in televisione, delle tensioni fra i partiti “l’un contro l’altro armato”. Ebbene, questo –dice Bersani- discende direttamente dalla personalizzazione della dinamica politica. Quando i partiti e i movimenti assumono una natura ‘personale’, quando sono propaggini di un leader e dipendono dalla sua esistenza, la competizione politica non può che essere ‘personale’, e quindi litigiosa, intesa a demolire l’avversario, a distruggerlo “con le tutte” come persona, per distruggere con lui anche i partiti di riferimento. Quando, invece, i partiti e i movimenti si identificano con delle idealità, dei progetti, delle strategie di azione; quando i leader sono la voce dei partiti e non si limitano a dare loro la propria voce, allora la competizione diviene –o torna a essere- dialettica, ed è perfino possibile una sintesi che si prospetti migliore delle tesi di partenza.
Quando il partito o il movimento sono sovrapponibili con il leader, o il leader si sovrappone a essi, non esiste altro che il potere del leader, che va difeso a ogni costo perché è quello stesso che –in parti anche minime- è l’anima di ciascun aderente al partito: e allora va bene tutto ciò che lo tutela, sia pure il riconoscimento della nipote di Mubarak o il disconoscimento di sentenze passate in giudicato –oppure, in tono assai minore ma della stessa natura, l’immodificabilità di una proposta fatta dal leader, che altrimenti ‘ci perderebbe la faccia’-. Nel primo dei casi, vige la legge ferrea del “si fa come dico io”; nel secondo, “se non si fa come dico io, tutti a casa”, che non è molto diverso: dell’opportunità di ciò di cui trattasi, della giustezza, della giustizia, della logica, del dissenso motivato, della storia, della filosofia, dell’etica non importa più nulla; ‘quod regi placuit legis habet vigorem’, come nella consuetudine feudale.
L’altro punto riguarda il dilagante atteggiamento dell’‘antipolitica’, che va combattuto perché mina le basi stesse dell’ordinamento democratico. Altre volte mi è capitato di scrivere su questo giornale a proposito di tale tema; a dare il via alla grande campagna contro “la casta”, e al conseguente montare della ‘bolla’ antipolitica, è stato il più importante quotidiano della destra liberale italiana –“il Corriere della sera”, che è per eccellenza la voce di tutte le caste italiane e non solo-, per la penna di due valenti giornalisti (milionari) come Rizzo e Stella, coerenti difensori dei privilegi della loro casta –quella dell’iniziativa privata- contro la concorrenza degli apparati pubblici –lo Stato è il loro vero grande nemico-: c’è da avere più d’un sospetto che tutta l’operazione sia equivoco.
Ma è comunque certo che non si può combattere l’antipolitica con l’antipolitica. Questo osservava anche Bersani. La gara intrapresa dal ‘Movimento 5 Stelle’ e dal PD renziano su chi è più ‘anticasta’, più rigoroso nell’eliminazione dei privilegi, più assiduo nell’abolizione di simboli e di cerimoniali, più giacobino (senza ghigliottine, però; anzi sostituendo il modello ‘marketing’ della rottamazione alla violenta giustizia di chi vuole cambiare il mondo) rischia di diventare una corsa a chi la dice più grossa, attaccando le posizioni di vantaggio piccolo o grande degli apparati pubblici, ma non toccando mai gli assetti della ‘proprietà privata’ nelle sue forme antiche e moderne.
I partiti, dicono, non devono essere finanziati dallo Stato –cioè dalla comunità dei cittadini-; chi vuole finanziarli lo faccia privatamente: ovvero chi ha disponibilità –quelli della vera ‘casta’- si faccia un partito (singolarmente o in ‘lobby’), si organizzi le campagne elettorali, si scelga i candidati, attivi la presenza sui territori, utilizzi televisioni e promozioni. Chi non ha disponibilità, si arrangi un po’ come vuole.
Il Parlamento, soggiungono, costa troppo: si elimini una Camera, si dimezzino gli stipendi dei parlamentari e di tutti gli organi istituzionali, si redistribuiscano i risparmi fra i ceti più bassi. Ma il Parlamento è la rappresentanza dei cittadini: non si può neppure domandarsi se serve o non serve, perché il Parlamento, da milleduecento anni, è l’espressione e la garanzia della democrazia. Il Parlamento è la medicina contro i fascismi comunque mascherati, contro le monarchie antiche e moderne: non si può decidere a caso se assumere o no una medicina indispensabile, e a nessuno verrebbe in mente di diminuirne la dose “perché costa troppo”; se la dose è minore di quella necessaria non serve a nulla.
Il Parlamento è un organo prezioso del corpo sociale: è giusto, giustissimo, eliminare gli sprechi, gli orpelli –con moderazione però, perché chi non legge e non ascolta le parole vede i riti e le liturgie, e si nutre di quelli-; è giusto eliminare i ‘gadget’ e le ‘facility’, con moderazione però: perché la ‘casta’ vera, i vip, i big della finanza e della rendita, riempiono paginate dei loro rotocalchi con l’esibizione del loro lusso e del loro spreco, per comunicare e far capire agli esclusi la loro appartenenza alla nuova ‘aristocrazia’ (o l’aspirazione a entrarvi).
Se i parlamentari sono troppi e ne bastano meno, se ne diminuisca il numero –e forse con i nuovi mezzi di comunicazione, utilizzati in questo senso, è davvero possibile semplificare le forme della rappresentanza-, ma assicurandosi che sempre la volontà degli elettori sia adeguatamente trasmessa ai governi e alle amministrazioni, e li controlli. E allora si ricompensino come chi ha responsabilità analoghe negli organismi di governo privati, perché non s’abbia a pensare che chi si occupa degli interessi di tutti valga meno di chi si interessa degli interessi di singoli. E quel che vale per i parlamentari valga anche per i manager delle imprese pubbliche.
Una redistribuzione delle risorse è indispensabile, vitale. Ma non facciamo le finte. Se il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza della nazione, è lì che si deve attingere per il riequilibrio. Pensare di poter aumentare le pensioni minime erodendo le ‘pensioni d’oro’ soddisfa la giusta rabbia di chi gode –si fa per dire- delle prime, ma lo inganna: ciò che si può togliere agli 11.000 pensionati d’oro –foss’anche tutto-, redistribuito fra i milioni di pensionati, dà integrazioni miserabili. Le pensioni troppo elevate vanno rimodulate secondo il criterio contributivo, perché così si è fatto con le altre; ma questo è valido in sé, non per venire incontro all’esigenza di giustizia sociale; perché a quello scopo non è minimamente adeguato.
Eppure l’antipolitica che si vuol moderare si nutre facilmente con rivendicazioni schematiche e vane. Se la si vuole combattere bisogna smettere di trattare i cittadini come bimbi scemi. Bisogna dire la verità. Bisogna curare le malattie con i farmaci adeguati, e realizzare la giustizia sociale con la camomilla renziana (ma, ahimè, anche grillina) non serve. Il problema che abbiamo davanti è l’elaborazione di un modello economico nuovo e capace di far stare meglio tutti, perché quello presente è morto, e ci ha regalato una povertà diffusa quasi come un secolo fa. Il problema non sono tanto stipendi e pensioni d’oro, sono le concentrazioni di ricchezze private che possono comprare tutto e tutti, a prezzo della povertà di troppi.
Qualche anno fa –c’era ancora la lira- entrando in un negozio di ferramenta, trovai alcuni avventori in ascolto di un altro che sosteneva accorato: “I parlamentari si sono dati un aumento di stipendio di cinquecentomila lire. Non voglio dire che non debbano. Ma bastava che se ne dessero la metà, e l’altra metà la potevano dare ai pensionati, così stavano meglio in tanti”. Io, sommessamente, intervenni e chiesi a quello che parlava: “Ma scusi, quanti sono i parlamentari?”. E lui: “sono un migliaio”. Chiesi ancora: “e i pensionati quanti sono?”. “Una decina di milioni”, fa lui. “Allora”, osservai io, “ci vuole un po’ di più di un migliaio di metà dell’aumento dei parlamentari”. E lui: “Possibile che io da stamani continui a dire questa bischerata…?!”.
Forse non è così semplice, ma per superare l’antipolitica magari si tratta solo di spiegarsi.
Luigi Totaro