La gara non era soltanto alla domenica.
A quel tempo la gara era tutti i giorni, in allenamento.
Ognuno provava il suo od un comune percorso, come ad esempio la Diga (dal benzinaio del Barontini alla punta del Gallo, fino agli scogli di San Giovanni e ritorno) e quindi, pur non essendo fianco a fianco, era lo stesso una gara, per certi versi anche più snervante: una gara a tempo.
Già, il tempo.
Prendere il tempo ad una barca avversaria era un’operazione laboriosa.
Era necessario far allineare due fattori completamente opposti.
Innanzitutto bisognava essere efficienti, dunque l’elemento imprescindibile era l’assoluta certezza della precisione.
Il tempo lo si prendeva, ovviamente, da quando la barca partiva a quando arrivava.
Sì, ma quando partiva? Partiva quando si muoveva, quando cioè era stata ultimata la prima, durissima (a barca ferma) palata, non quando il timoniere dava il via.
Chi stava a terra, non potendo sentire il via del timoniere, pigiava lo start alla vista del primo spruzzo d’acqua lanciato in aria dalle pale dei remi.
Il timoniere a bordo, a sua volta, veniva istruito a fare lo stesso, in maniera tale che il metro di giudizio fosse uniformato.
Per l’arrivo invece era meno complicato: sempre che non si fosse allineati col traguardo, i vogatori, stremati, smettevano di remare e quello era il segnale, palese.
Però, e passiamo al fatture numero due, tradizione imponeva anche di essere “discreti”, nel senso di non farsi vedere.
Premessa: all’epoca non esistevano i telefonini e dunque, per andare sul sicuro, il tempo ad una barca avversaria veniva preso anche da più persone della stessa fazione, all’insaputa reciproca.
E qui, su queste modalità di discrezione, ci si potrebbe scrivere un libro a parte.
Accadeva questo: più o meno tutti i giorni, cronometro alla mano e sprezzanti del ridicolo, insospettabili e rispettabili personaggi si acquattavano, si imbuscionavano, si mimetizzavano, oppure sgattaiolavano in altura (Oreste era solito salire allo Stella) muniti di binocoli che sembravano telescopi.
Per niente al mondo si sarebbero persi di andare a prendere “il tempo” ai rivali, ormai era diventato un rito.
Alzi la mano, dei discepoli Oreste, chi non si è imboscato, almeno una volta, nel suo Papà Buonaiuto, per le operazioni di spionaggio del caso.
Il Papà Buonaiuto, per dove era ormeggiato, una era una tribuna naturale, privilegiata, il non plus ultra, perché offriva tutto: nascondiglio tranquillo, comodo (ci stavano in tanti, era un bastimento) e visuale ravvicinata, perfetta.
Certo è che quegli appostamenti, dalla durata variabile, sia sul Papà Buonaiuto, che a San Giovanni, al Porto, alla Linguella, alla punta del Gallo, alle Ghiaie, su qualche torretta e vai a sapere cos’altro manca nella lista, da parte di tutti coloro che gravitavano intorno al Palio remiero, erano roba da KGB, altro che.
Non sempre questi appostamenti andavano a buon fine però, c’erano anche le finte, hai voglia: un equipaggio, consapevole di avere occhi e cronometri avversari puntati addosso, tergiversava, sparava un paio di false partenze e disegnava in acqua girigogoli vari finalizzati, al dunque, a far passare un quarto d’ora da scemi a coloro i quali, appostati com’erano, a pensarci bene in quel momento forse un po’ scemi lo erano davvero.
Adesso, a bocce ferme e a distanza di anni, uno ci si fa anche una bella risata sopra, ma è garantito che all’epoca smanettare col cronometro era argomento serissimo: scemi non ce n’era, anzi, ognuno si sentiva una faina.
I riscontri cronometrici rilevati in quei pomeriggi, un po’ a tutte le barche, sia amiche che nemiche, avevano anche un sorprendente e devastante impatto sociologico, poiché mettevano, come no, il buonumore o il malumore (dipendeva dai numeri) nelle serate di intere famiglie.
Quando e se la Padulella, o il Capo Bianco, infrangevano il proprio record poi, si verificava puntuale questa scena.
Il team a terra manifestava il proprio entusiasmo relativamente in modo tranquillo, salvo poi lasciarsi andare nel consueto gesto: il cronometro veniva frullato in mare.
Alla spiaggia della Padulella, poco oltre la battigia, a destra, sotto la punta del naso, ce ne saranno una cinquantina.
Se non c’era un accordo esplicito tra le barche, la legge non scritta “non si va a toccare le boe degli altri” non veniva violata.
Poteva allora andare il Capo Bianco a provare il percorso della Padulella? Decisamente no.
Sicuri?
Questa merita.
Una volta Oreste, nel 1989, avendo all’epoca traslocato il suo quartier generale alla Linguella, pianificò una missione segretissima ed ordinò al suo equipaggio un blitzkrieg notturno, al buio dopo cena, alla Padulella, per provare il percorso di Nilo.
Il Capo Bianco era al primo anno con le barche in vetroresina (nel 1988 saltarono un giro) e, non avendo nessun riferimento, volevano testarsi.
Sapere a che a che punto fosse la Padulella non era un problema, tutti i giorni Oreste (o chi per lui) era andato a prender loro il tempo, appostato nel canneto nei pressi di Villa Ombrosa.
Fecero mezzo percorso per la verità: 1000 metri anda e rianda (500 + 500).
Partenza dalle Ghiaie e virata davanti alla spiaggia della Padulella, che tanto la boa si vedeva bene poiché illuminata dalle luci del ristorante. Al ritorno invece, per rendere maggiormente visibile al timoniere (che comunque fu un falco) l’altra boa davanti alle Ghiaie, il figlio di Oreste, Mauro, al 4^ remo, prima di partire si tolse la canottiera bianca e ce l’appoggiò sopra. In mare, tutto fa.
Fecero questo percorso a palla di fucile.
La gente che cenava al ristorante alla Padulella, uscì sulla spiaggia incuriosita (e anche un po’ spaventata) quando sentì, sempre più in avvicinamento, il ruggito degli scalmi e poi vide, a quell’ora assurda, arrembare la barca del Capo Bianco, che fece il giro di boa in uno schiumone pazzesco per poi scomparire nel buio in un batter d’occhio.
Sarà stata l’adrenalina, sarà stato che erano forti davvero, fatto sta che i ragazzi di Oreste volarono: un secondo sotto il miglior tempo della barca di Nilo, padrona di casa.
Apoteosi.
Quel record “a spregio” non valeva come una medaglia vinta in una gara.
Per il peso specifico assunto, valeva molto, ma molto di più: Oreste godeva come un riccio e l’equipaggio festeggiò subito con un maxicocomero, acquistato sul viale delle Ghiaie (da Vincenzo mi sa, Tonacone forse aveva già passato la mano) e divorato al nuovo quartier generale alla Linguella.
La missione era compiuta.
Quel deliberato sconfinamento, di soppiatto, in acque territoriali nemiche, chiuso poi col botto finale, era un oltraggio a tutti gli effetti, tipo Scapa Flow nel 1939.
Probabilmente, se non avessero fatto il record, sarebbe passato tutto in cavalleria, ma tant’è.
Alla Padulella, il record infranto dall’acerrimo rivale suonava un po’ come la profanazione del tempio e l’affronto fu ripagato tempo dopo (da quelle parti non agivano d’impulso, sapevano aspettare) con la stessa moneta, però con una piccola, succulenta variante.
Il ragionamento su per giù era questo, non faceva una piega: sei venuto di nascosto a provare il mio percorso? Bravo! Hai fatto anche il tempone? Bravissimo! E ora come la mettiamo? Facciamo così: io da te non ci vengo, ma te di temponi non ne fai più, perché io t’allungo il percorso. Il tuo, sì, proprio il tuo, e non te ne accorgerai nemmeno.
L’ordine alla Padulella venne impartito dall’alto e fu eseguito alla lettera: qualcuno andò apposta, una sera tardi, al buio, con una barca a motore, sul percorso del Capo Bianco a San Giovanni, a prendere in mano la cima su cui era legata la boa e, con uno sforzo disumano, a spostare il pesantissimo corpo morto verso il largo.
Non di tanto, per non destare sospetti, ma di poco: quanto bastava.
Un lavoretto coi fiocchi.
Di lì a fine stagione, sul suo percorso, a Oreste non tornarono più i conti, e le ripercussioni furono catastrofiche: musi lunghi tutti i giorni, modifiche su modifiche a tentativi senza senso, per effetto domino si scatenò anche una furibonda litigata tra di loro che fece saltare 2/3 giorni di allenamento e mise a serio rischio il proseguo dell’attività agonistica.
Non ci si raccapezzavano più. Andarono, come si dice in gergo, nel pallone.
Non sospettarono mai di nulla, quel contro blitz perfetto della Padulella aveva sortito l’effetto sperato, moltiplicato per mille: a godere come un riccio questo viaggio era Nilo.
La missione, anche in questo caso, era compiuta.
Pardon, sembrava compiuta.
Perché quelli del Capo Bianco ancora non lo sapevano, davano retta solo al cronometro (che prende il tempo e non la distanza), ma in realtà la barca andava forte, come poi vedremo nel prossimo capitolo, a Genova.
Le gare a tempo dunque, più che gare, erano guerre, di spionaggio e non.
Come accennato in precedenza, ad un certo punto (su disposizioni federali) le barche di legno furono rimpiazzate da quelle in vetroresina.
Ma che fine hanno fatto quelle meraviglie? Stiamo parliamo di una quindicina, forse anche venti unità.
Ho provato a documentarmi al riguardo, ma ho avuto notizie parziali.
Mi scuso dunque se il resoconto di seguito riportato è incompleto.
Qualcuna veniva usata all’Innamorata a Capoliveri nell’ambito della storica disfida della ciarpa il 14 luglio, qualche altra finì a Rio Marina.
Le due barche del Capo Bianco sono state recuperate e restaurate - distintamente: una a Porto Azzurro, l’altra a Portoferraio - da due appassionati dalle mani d’oro che, dopo averle tirate a lucido, le custodiscono come reliquie.
Chi ha rimesso a nuovo il Capo Bianco 2, contestualmente all’invio di alcune foto, mi ha scritto questo, per WhatsApp: “Che barche! Ogni volta che apro la baracca rimango sempre affascinato”.
E le regine dei mari degli anni ‘70?
L’Imperia è riposta (o nascosta, come al solito) in un magazzino vicino alla piazza di Porto Azzurro, mentre la Padulella 1 è capovolta in una rastrelliera nel capannone della Lega Navale al Grigolo (nella foto).
Ma non sono all’abbandono. Sono, come dire, vulcani dormienti. Hai visto mai (ad essere ottimisti).
Ad essere realisti però c’è da constatare un fatto, sacrosanto, perché sempre di una questione di tempo si tratta.
Ma stavolta è lento, che passa, inesorabile, che non si misura con le lancette, ma col calendario.
Quelle barche hanno scritto memorabili pagine di storia e forse non se la meritano quella polvere che, spietatamente, senza far rumore, giorno dopo giorno, sopra vi si posa.
Non dico di forzare la mano e riproporre il Palio con le barche di legno, ci mancherebbe, ma valorizzarle maggiormente (es. esporle), prima che la tradizione che in esse è rappresentata vada perduta, magari sì.
Michele Melis
Didascalia foto
- Uno storico equipaggio della Padulella anni ‘70.
- Gara anni ‘80 a San Giovanni.
- Gara anni ‘80 a Porto Azzurro.
- La barca del Grigolo ed il suo giovane equipaggio nel 1987 (ultimo anno delle barche di legno).
- Premiazione del Capo Bianco a San Giovanni.
- L’Imperia di Porto Azzurro in tutto il suo splendore.
- Il Capo Bianco 2 oggi.
- La Padulella 1 oggi.