La storia di Nilo e Oreste volge al termine, questo è l’ultimo capitolo.
Durante queste settimane, qualcuno mi si è avvicinato, o mi ha chiamato al telefono, per raccontarmi cose, episodi ed aneddoti che ancora non sapevo.
Oltre a ciò, grazie alla disponibilità di chi ha aperto il proprio album dei ricordi, sono riuscito a reperire un bel po’ di materiale fotografico: ero partito con pochissime foto, 5/6 striminzite, oserei dire elemosinate, e me ne sono piovute addosso quasi trecento.
Del resto, con l’argomento di che trattasi, c’era da immaginarselo.
Ci speravo, ma non era scontato.
Questa storia, che vede per protagonisti due colonne portanti del Palio remiero elbano, dal periodo d’oro delle barche di legno, sconfinando poi con quelle in vetroresina, può aver rispolverato (mi auguro piacevolmente) la memoria di chi quei momenti li ha vissuti, da protagonista o anche da semplice spettatore.
Perché il Palio remiero rappresenta storia e tradizione.
E’ doveroso ringraziare tutte le persone che hanno collaborato alla stesura di questo racconto, in primis le famiglie Lambardi e Colombo.
Con uno dei ragazzi di Oreste poi, siamo sempre stati a stretto contatto, sia telematico che, pandemia permettendo, di persona.
Io avrò anche messo nero su bianco, ma tutto quello che riguarda di Oreste, di fatto, l’ha ricostruito lui.
Però, quando mi è capitato di parlarci a quattr’occhi la prima volta, in un lungo incontro avvenuto l’estate scorsa al Grigolo, a momenti manco l’ascoltavo, perché sono stato rapito.
Mi hanno rapito i suoi occhi: al nominare il suo mentore, gli brillavano.
Oreste, era palese, gli aveva lasciato il segno. E più che a livello sportivo, umano.
Ed è umanamente che è improntato quest’ultimo capitolo perché, badate bene, il cerchio si chiude proprio come si era aperto: con l’amicizia, non con la rivalità.
Perché Nilo e Oreste sono sempre stati, innanzitutto, amici per la pelle.
Ricordate l’incipit? Erano inseparabili.
Vivevano in simbiosi, sul serio, e lo hanno fatto fino all’ultimo.
Quando le condizioni di salute di Nilo, che già aveva oltrepassato gli ottanta, non erano più floride e gli venne consigliato (quasi imposto) di non uscire più di casa, di starsene buono, riguardato, succedeva l’inevitabile.
Oreste andava a trovarlo tutti i santi giorni e, non appena possibile, se il meteo era clemente, via!
Non c’era neanche bisogno di sussurrare «Annamo», bastava ed avanzava un’intesa di sguardi.
Uscivano.
I familiari di Nilo erano accondiscendenti, perché sapevano benissimo cos’erano, e cosa rappresentavano, quelle brevi sortite.
Oreste accompagnava il suo amico al bar - l’universale pass “Nilo è a prende il caffè” era a scadenza illimitata - e poi, al rientro, passando in macchina da sopra le Ghiaie, dalla salita della Padulella, involontariamente (o forse no, chissà) era anche per fargli guardare, ascoltare, annusare, assaporare, ciò di cui Nilo, in quel momento, ci sta che avesse bisogno: il mare.
Da casa, mica si poteva.
Quando Nilo se n’è andato, alla fine del 2009, Oreste la prese male, malissimo.
Tra lo stupore generale, piangeva a dirotto, a trattenersi non ci provò nemmeno.
Erano sì cane e gatto, ma si volevano un bene dell’anima.
Era finita.
Oreste aveva perso in un colpo solo il rivale ed il complice, il vicino di casa e l’amico del cuore, ed in quelle lacrime, spontanee e sincere, può darsi ci fosse la consapevolezza, realizzata in un tourbillon di emozioni forti, di quello che - a modo loro, con e senza barche - era stato e che, da quel giorno in avanti, non sarebbe più stato.
Quel rapporto speciale, allo stesso tempo, paradossalmente, di amore ed odio, amicizia e rivalità; quel sistematico gioco a guardie e ladri con i ruoli che si invertivano, eccome se si invertivano, anche più volte nel corso della stessa giornata; quello scontrarsi di continuo che pareva dover durare all’infinito, in realtà così poi all’infinito, come per tutte le cose, non poteva essere.
Per Oreste non era affatto semplice incassare un colpo così duro. Anzi, era quasi impossibile.
Oreste tribolò un po’ per farsene una ragione e poi, nel 2011, un brutto male si portò via anche lui.
Alla camera ardente di Oreste, i figli di Nilo gli resero omaggio, come meglio non si poteva.
Si presentarono con due totanaie.
Nella nostra comunità, soprattutto per la gente di mare, la totanaia ha un fortissimo valore simbolico.
E quelle non erano totanaie qualsiasi, ma proprio quelle che aveva costruito a suo tempo Nilo e, con la tacita approvazione della famiglia, Oreste se le è portate con sé per l’ultimo viaggio.
Fu ricambiata la cortesia, perché anche due anni prima, quando morì Nilo, accadde la stessa, identica cosa.
Ognuno se n’è andato all’altro mondo con le totanaie dell’altro, come ricordo. Giusto così.
Ricordo, per l’appunto, è una parola che deriva dal latino re-cor e significa richiamo al cuore.
Era veramente finita.
Ed era stato tenuto in serbo il più cavalleresco, il più nobile, il più dolce dei finali.
Da brividi.
Nella memoria di chi li ha conosciuti, la loro storia non potrà che rimanere indelebile, esattamente così com’era: pura e cristallina.
Una storia da consegnare agli annali, forse perché unica, di sicuro irripetibile.
Di personaggi così non ce ne sono più.
Michele Melis
Didascalia foto
- Nilo e Oreste.
- Nilo, Oreste e Franco Meloni con un equipaggio degli anni ’70.
- Nilo e l’equipaggio della Padulella campione d’Italia 2009.
- Oreste con l’equipaggio vincitore del Palio del 1989.
- L’ultimo equipaggio (femminile) allenato da Oreste.
- Oreste abbracciato affettuosamente da una ragazza dell’equipaggio.
- Nilo ad una cena.
- La Padulella in una storica trasferta a La Spezia.
- La spiaggia della Padulella (la barca col telo celeste è quella di Nilo, l’altra è del Meloni).