Un inviato di un giornale italiano, in Brasile in occasione della cessione di Zico all’Udinese, nel 1983, vede in tv, tra gli innumerevoli servizi sulla partenza di un campione-simbolo della Nazionale verdeoro, una scena ripresa in una favela sommersa dal fango. E oggi ce la racconta così:
“Il giornalista si trovava sopra una barca, protetto da un impermeabile e un ombrello. Si fermò vicino a un signore, una persona di cinquanta, cinquantacinque anni che aveva mezzo busto immerso in quell’acqua marrone, in quella melma.[…] Il telecronista gli mise il microfono sotto il naso: ‘Cosa pensa il signore della partenza di Zico?’ E quel signore tutto bagnato sospirò: ‘E’ una tristezza, una profonda tristezza. Non riesco a darmi pace. Io sono un suo tifoso, non ho mai perso una partita. Spero ritorni presto’: Il giornalista: ‘Grazie, molto gentile. Arrivederci e buona fortuna.’
L’inviato, che restò sbalordito e incredulo davanti a quelle immagini, era Darwin Pastorin, nato in Brasile da una famiglia di emigrati veneti. I suoi rientrarono in Italia, a Torino, nel 1960, in coincidenza col boom economico, quando lui aveva cinque anni. Da decenni lui scrive di sport, ha diretto Tele+, Stream tv, i programmi sportivi de La 7, oggi è direttore di Quarta rete tv, a Torino.
Pastorin è un attento osservatore e un narratore di qualità, che si esprime sia negli articoli che nei libri (Eduardo Galeano dice di seguire le sue cronache “come chi ascolta messa”). E ha scelto la vigilia dei campionati del mondo in Brasile per raccontarsi e raccontare attraverso immagini, spezzoni, storie di famiglia, il suo Paese, a cui si è sempre sentito legato come alla terra che ti ha messo al mondo. Per il libro edito da Elliot, dal titolo Adesso abbracciami, Brasile ha scelto lo stile autobiografico per offrire al lettore la possibilità di ascoltare più da vicino le sue storie, che sono un po’ anche le nostre. A partire da molto lontano, da quel bisnonno Natale Pastorin, partito nel 1894 a cercare fortuna in un Paese di cui si sapeva che “c’erano campi immensi da coltivare, sole quasi tutto l’anno e donne bellissime, come in certi teatri”. Quello che Gian Antonio Stella ha raccontato ne L’orda, la storia di noi italiani costretti a fuggire dalla fame e dalla miseria, lo ritroviamo in questo libro con la lente di ingrandimento su in una famiglia-campione, che per tre generazioni attraversa e riattraversa l’Atlantico, con chi resta da una parte e chi dall’altra, e un cuore che comprende in sé due Paesi e due continenti.
Il libro è diviso in due parti, la prima che accompagna i viaggi, con le decisioni tormentate di andare e tornare di bisnonni, nonni e genitori. Nella seconda, che inizia dal suo ritorno definitivo in Italia con i genitori, i riflettori sono puntati su lui stesso, dal bambino di prima elementare all’uomo di oggi. Lo sport fa sempre da sfondo carico di passione, individuale e collettiva, e da lente attraverso cui guardare il mondo. Incontriamo così, tra l’altro, la storia della giornata più tragica della storia del calcio brasiliano, la sconfitta in casa con l’Uruguay nel 1950, vissuta come una tragedia nazionale, con tanto di decine di suicidi e con un portiere, Moacyr Barbosa, colpevolizzato da un intero popolo per decenni; quella del tassista che a Rio de Janeiro lascia a piedi il “nostro” Paolo Rossi colpevole di aver trafitto con tre gol ai mondiali dell’82 il Brasile di Socrates e Zico; il racconto della democrazia diretta nella squadra del Corinthians, con assemblee di giocatori (Socrates in testa) a decidere la formazione e i moduli di gioco, e insieme a indicare dal calcio la strada per uscire pacificamente dalla dittatura; seguiamo l’autore che assiste allibito a una partitella di vecchie glorie in cui il portiere Renato para tre rigori di fila al grande Pelè, e Rivelino gli dice: “Puoi scriverlo, raccontarlo, tanto non ti crederà nessuno.”
Pastorin è convinto che siano le stelle, o quel destino misterioso che ci precede e ci accompagna, ad aver segnato per lui una vita indossando gli occhiali dello sport. Non manca occasione per ricordare di essere nato in quello stesso giorno del 1955 in cui debuttò nella nazionale brasiliana, col numero 7, Francisco Manuel dos Santos, detto Garrincha, “l’angelo dalle gambe storte” capace di ingannare tutti gli avversari sempre con la stessa finta. E a lui ovviamente ha dedicato un libro, Ode per Manè, pubblicato da Limina.
Nelle pagine di Adesso abbracciami, Brasile, che scorrono via leggere, non si incontra solo calcio, o meglio il calcio porta anche a Toquinho, Vinicius de Moraes, Chico Buarque de Hollanda, per arrivare a Jorge Amado, che in un’intervista gli descrive il futebol come “una danza straordinaria ballata da ventidue ballerini.”
E proprio con un omaggio a Jorge Amado, un “lamento di strada di un bambino brasiliano” il libro si chiude, come un cerchio che collega la vecchia povertà dei nostri bisnonni a quella di milioni di diseredati, oppressi, i destini segnati dalla nascita nelle favelas. L’io autobiografico che ci ha condotto fin lì attraverso una storia familiare e sociale si dissolve in quello di un piccolo senza nome, con la sorte così diversa dai figli nostri e degli stessi “turisti sessuali” che li sfruttano: lui ha ricevuto “l’ultima carezza dal manganello di un poliziotto, proprio qui, all’altezza del fegato”, le stesse carezze che troppi poliziotti tanno usando per “difendere” le vetrine dei mondiali.
E’ un libro da leggere, proprio oggi che, in attesa di incollarci sulle comode poltrone di casa davanti ai televisori a seguire le partite, vediamo, in quello stesso Brasile, in tutta la sua crudezza e disumanità, la risposta violenta dello Stato, e di “forze dell’ordine” autorizzate a tutto, alla rabbia di giovani, lavoratori, disoccupati, diseredati. Chi protesta vede e denuncia lo stretto legame che c’è tra l’organizzazione del Mundial, con la corruzione e le storture collegate, e la condizione di povertà, di violenza, di abissali disuguaglianze sociali. Persone che non vogliono stare, come faceva quel signore di mezza età nel 1983, nella melma a rispondere a domande sulla loro passione calcistica.
Non possiamo sapere cosa accadrà nei prossimi giorni, ma probabilmente lo spettacolo continuerà facendo dimenticare tutto, come è accaduto troppe volte: con le Olimpiadi messicane del ‘68 dopo la Strage di Piazza delle tre Culture; dopo la presa in ostaggio degli israeliani e l’intervento delle forze di sicurezza alle Olimpiadi di Monaco del 1972; con la finale di Coppa Davis nel Cile di Pinochet, nel ’76, negli stessi luoghi che erano stati teatro di torture; con i mondiali di Argentina del ’78, che coprirono le urla delle migliaia di desaparecidos e le loro immagini che le Madri portavano ogni settimana a Plaza de Mayo.
L’importante è che gli occhiali rosa con cui guarderemo le partite non cancellino nella nostra memoria e nella nostra essenza umana tutte le altre immagini, come se non ci riguardassero. Siamo tutti interconnessi, tutti sulla stessa barca, come ben ci ricorda la memoria familiare e sociale di Darwin Pastorin.
Darwin Pastorin, Adesso abbracciami, Brasile!, Elliot, 2014, pp. 160, euro 16,50
Luciano Minerva http://www.elbadipaul.it/