Anni fa ho avuto l’onore di partecipare alle molte e interminabili riunioni fatte per il percorso partecipativo, attivato dalla Regione Toscana, relativo al devastante Piano Particolareggiato per il Golfo di Baratti proposto dal Comune di Piombino e fortemente contestato dalla popolazione del golfo medesimo. La nostra Regione ha tanti meriti e, fra questi, una appropriata legge sulla comunicazione, alla quale si ispirano molte istituzioni, italiane ed europee. Dalle riunioni che, con molta frequenza, si svolsero a Piombino in quell’inverno, emersero spunti critici, spesso anche fortemente polemici.
Il Piano era, nei fatti, una colata di cemento, come qualcuno ricorderà. Quello che interessa qui non è, tuttavia, il contenuto del Piano bensì l’orizzonte sociale, istituzionale e culturale che, volendo o non volendo, questo Piano contribuì a disvelare.
Gli abitanti del golfo e di Piombino sapevano tutto o quasi della storia e dell’archeologia di Baratti e quello che non sapevano lo chiedevano, a me o ad altri “tecnici” presenti a quei tavoli, senza timore e manifestando interesse. Si creò, insomma, molto presto, una convergenza di intelligenze e di sapienze, come ebbe a dire in seguito, con soddisfazione, l’Assessore regionale al Paesaggio Anna Marson. Molto diverso si rivelò, nella circostanza, il paesaggio politico e istituzionale. La sostanziale ignoranza (nel senso di non-conoscenza) di amministratori e imprenditori si rivelò, con poche eccezioni, fin da subito. Gli amministratori piombinesi trattarono con condiscendenza, diciamo pure con sufficienza, sia i tecnici (pazienza…) sia i cittadini (e questo fu molto grave). Solo con il passare dei mesi si riuscirono ad individuare dei piani di condivisione.
Una sorta di percorso partecipativo andrebbe fatta per la rada di Portoferraio, che ospita emergenze storiche, archeologiche, urbanistiche e architettoniche certamente non secondarie rispetto a quelle del golfo di Baratti.
Quello che voglio dire è che il confronto con i cittadini (elettori e non) può essere molto salutare per una Amministrazione. Basterebbe, magari, che un’Amministrazione sostituisse un affermazione con una domanda. Invece di dire “in questo luogo faremo così e così” bisognerebbe avere l’accortezza di chiedere, nel caso specifico “come vorreste che fosse la rada di Portoferraio?”. Sarebbe un atto originale e rivoluzionario. A volte gli amministrati devono essere considerati non come unità di voto ma come soggetti pensanti, risorse intellettuali che possono dare una mano anche in fase di progettazione del futuro.
Avevo scritto, a suo tempo, che, in assenza di partecipazione, comincia lentamente a formarsi un malfunzionamento. Alla fine, l’occasione è sprecata e il danno è di tutti: della rada di Portoferraio, irrimediabilmente e irreversibilmente compromessa; dei cittadini di San Giovanni, espropriati del loro luogo e delle loro memorie in cambio di un non-luogo; di Portoferraio, ridotta a decadente appendice di un outlet; degli Elbani di domani, che cercheranno invano nelle foto e nelle cartoline lasciate dai loro nonni una risposta alla domanda: “perché?”.
In generale, credo, tuttavia, che serva, d’ora in avanti, una gestione condivisa del patrimonio culturale dell’isola. La cultura di una comunità è scenario unificante, non rispetta i confini amministrativi, dei quali non sa che fare, essendo questi delle convenzioni istituzionali recenti, utili a far funzionare certi servizi (anche se non sempre è così).
Divisione è, per natura, inefficienza, disservizio, spreco. Dove si afferma “ognun per sé”, “facciamo da soli” e simili amenità, ecco, quello diventa, immancabilmente, il palcoscenico della rappresentazione del fallimento. La gestione del patrimonio culturale deve essere unitaria per sua natura. Già tanti problemi derivano da una concezione idealistica, elitaria e patrimoniale (quanto vale quel quadro?) del patrimonio culturale (la rendita). Mentre in Italia ancora ci accaniamo attorno al vetusto e stantio concetto di BBCC, in altri paesi hanno da tempo introdotto il concetto di “Heritage” (eredità), ovvero ricchezza che ci è data in temporaneo possesso dai genitori perché possiamo trasmetterla ai figli, possibilmente accresciuta e valorizzata. Non come rendita da consumare più o meno lentamente. Il patrimonio culturale (e il paesaggio nel quale questo si inserisce) rappresenta la garanzia dei diritti e dei beni comuni, non difesa del privilegio.
All’Elba dobbiamo rendere comune l’azione dei Comuni, superare gli schieramenti, non la politica. Gli Elbani, scegliendo coscientemente di non prendere il treno del Comune unico, più di un anno fa, hanno commesso un errore forse irrimediabile (ma molto, in democrazia, è così). Ma in quella direzione si andrà, presto o tardi, non ci sono dubbi.
Il terreno del patrimonio culturale può, in questo momento, essere il terreno giusto sul quale avviare una sperimentazione condivisa e collettiva. Ogni Comune ha una, dieci, cento emergenze ambientali e culturali. Sarebbe opportuno che i Comuni scegliessero un simbolo ciascuno, possibilmente al di fuori degli abitati. Penso alle Grotte, alla villa romana del Cavo, a Santa Caterina o a Grassera, a Monserrato, a Madonna delle Grazie o San Michele, al Castiglione di Marina di Campo, alla Fortezza pisana, allo Scoglio della Paolina o al Cotone. Facciamo una lista dei costi vivi di gestione di questi luoghi e delle loro rispettive criticità (accessibilità, visibilità, conoscenza, diffusione) e costruiamo su questa prima compagine una progettualità, ripartendo oneri e onori, ottimizzando i rispettivi usi sociali di tutti questi beni comuni e le risorse, umane e tecnologiche, che le otto diverse amministrazioni hanno a disposizione, attraverso una convenzione unica. Questo può valere per i musei, che sono, spesso, in sofferenza di personale addetto al controllo. Ma anche per le aree aperte, nelle quali i tagli della vegetazione, in primavera, sono imprese improbe. E lo stesso si può dire per la comunicazione all’esterno dei luoghi con valenze culturali.
E’ un’idea semplice, forse anche troppo, ma la butto lì sperando di trovare qualcuno che la faccia propria. Poi torno a occuparmi della rada di Portoferraio.
Franco Cambi