C’era povertà ma entusiasmo, voglia di vivere e mettersi alle spalle le tragedie della guerra.
Il paese cercava di farsi bello, pur nelle ristrettezze del momento: del resto non era la sede di splendide ville? Non era stato scelto da Remigio Sabbadini, Concetto Marchesi, Filippo Tommaso Marinetti, Georges Simenon per le loro vacanze? Il turismo era scarso, d’élite, le strutture ricettive quasi tutte da costruire ma il Ristorante Pierolli faceva un ottimo cacciucco, qualcuno della Val d’Aosta aveva adocchiato un bel posticino per costruirci la sua casa al mare e la signora Renée, a Capocastello, affittava già le camere.
D’inverno Cavo, o meglio Il Cavo, come lo chiamavano i locali, agli occhi di un frettoloso ospite poteva apparire in letargo, rispetto a centri più grandi o addirittura alla città, ma in realtà scorrevano nelle sue vene linfe che lo rendevano vivo e attivo, come un albero che, al sopraggiungere della brutta stagione, si libera delle foglie, riduce al minimo la sua attività, ma pure resiste per sei mesi alle intemperie, fino alla primavera successiva. Anzitutto, c’erano due ordini di scuole, la materna, chiamata da tutti “l’asilo”, e le elementari; poi non mancavano le botteghe di generi alimentari, la macelleria, l’edicola, l’emporio, i bar, la panetteria, il ristorante; senza trascurare i due luoghi per eccellenza dell’aggregazione paesana, la chiesa con la sua parrocchia e “le suore”. Esse infatti gestivano non solo l’orfanatrofio San Giuseppe, fondato da Don Dino, per dare un aiuto a tutti i minori in difficoltà, non necessariamente orfani, ma anche l’asilo, che radunava tutte le mattine i bambini dai tre ai sei anni: Irene lo frequentava insieme a Ida, Katia, Antonella, Mirella, Gabriella, Lucia, Daniele, Giuseppe, Franco, Luigi, Paolo, Silverio, Cesare, Lido, un altro Paolo, Enrico, Pierpaolo. I banchini e le seggioline erano verniciati di verde, la lavagna aveva i gessetti colorati, alle pareti erano attaccati i disegni di tutti e immagini di angeli dai volti dolcissimi, i capelli biondi, gli occhi celesti e robuste ali sulle scapole. A guardarli ci si sentiva rassicurati: se ciascuno ne aveva uno, invisibile, alle spalle, era a posto e sarebbe stato uno scriteriato a farlo piangere o addirittura volare via per un peccatuccio da quattro soldi.
Le suore erano pazienti e quando qualcuno piangeva, per la nostalgia da casa, per il compagno che gli aveva fatto lo sgambetto, per l’amica pettegola che aveva spifferato segreti segretissimi, se lo mettevano accanto, tenendolo per mano e accarezzandolo, nel camminare, con le lunghe e misteriose sottane nere: da quella prospettiva privilegiata, tutto era diverso, ci si sentiva riverberati della luce dell’autorità, forti e vincenti, cresciuti di un palmo in mezza giornata.
Non si pranzava a scuola, ma a metà mattina ognuno tirava fuori dal suo cestino quello che la fantasia della mamma ci aveva messo dentro: pane e marmellata, pane e burro, pane burro e zucchero, pane e mortadella, quasi mai il prosciutto che era un vero e proprio lusso.
Poi, a mezzogiorno, tutti via, a casa: chi stava vicino ci andava a piedi, da solo, gli altri con le mamme, a volte con qualche babbo momentaneamente disponibile, magari sul sellino di una bici o a cavalcioni delle sue larghe spalle.
Irene, da grande, non avrebbe comunque dimenticato i pianti che si faceva, quando la mamma la lasciava, specialmente i primi tempi, ed una foto, in particolare le avrebbe sempre rammentato la propensione ad essere una fontanella: ritraeva il gruppo dei bambini all’aperto, in una bella giornata di sole, e lei in lacrime, per la mano alla suora.
In prima elementare, la maestra era una ragazza giovane e dolcissima, si chiamava Maria Teresa e veniva da Livorno. Prese un appartamento in affitto in paese perché non poteva certo fare la pendolare, la sua città era troppo lontana da quel posto minuscolo e mal collegato al continente. Ma, forse per i disagi, per la solitudine, per la nostalgia di casa, s’ammalava spesso ed era sostituita da qualche supplente. Per Irene quel cambiamento continuo era un autentico tormento: quando arrivava la bidella Gina a dire: -Bambini, oggi la vostra maestra non c’è, verrà la supplente- un nodo le prendeva la gola e faceva uno sforzo tremendo a cacciare indietro le lacrime che le bucavano gli occhi.
“Fontanella” la chiamavano i compagni per la sua propensione al pianto. Ma quando sentiva quell’appellativo che detestava, allora reagiva: inghiottiva il magone, implorava l’orgoglio e, a schiena dritta, affrontava gli ostacoli che si presentavano. Questo miscuglio di forza e fragilità l’avrebbe accompagnata tutta la vita. Dal suo angolo d’osservazione, ogni avvenimento, piccolo o grande che fosse, meritava attenzione e riflessione: non si accontentava di sfiorare l’involucro dei fatti, come vedeva fare a tanti, piccoli e grandi, voleva incidere quella superficie e andare oltre. Così nei rapporti familiari e d’amicizia. Per questo a volte restava come incantata. Finché qualcuno non spezzava bruscamente il filo del pensiero con un – Irene, ci sei!? Sveglia!- che le risultava tanto odioso quanto lo sfregamento d’una ferita. Guardava tutto quel che la circondava, cercava di decifrarne i segni e gli umori: delle persone, degli animali, della natura. Del mare soprattutto, che era un elemento costante delle sue giornate.
Abitava infatti in una casetta a cinquanta metri dalla spiaggia che suo nonno aveva costruito pietra dopo pietra dal ritorno dalla miniera: allegra, ariosa, sempre soleggiata, circondata da un giardino di gerani e margherite, con una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, la piccola vigna sottostante e l’orto ancora più in basso. In un angolino, a ridosso di un lecceto, c’era il ricovero per la capra, a cui la nonna una volta al giorno andava a spremere le mammelle gonfie di latte per bollirlo e farne una panna spessa e morbida che trasudava goccioline di un giallo trasparente.
Il mare a due passi era un’attrazione irresistibile: le sembrava la chiamasse per il saluto giornaliero, ogni mattina, e lei l’assecondava con lo sguardo o col pensiero, per riservargli al pomeriggio un incontro più lungo e intimo, di ritorno da scuola e prima di mettersi a fare i compiti. Quel che l’affascinava era di trovarlo ogni giorno diverso, come una persona volubile e ambiziosa che abbia la smania di cambiarsi d’abito per segnalare il suo egocentrismo e i suoi cambiamenti d’umore: tetro, inquieto e assordante in certe giornate di scirocco, col cielo basso e opprimente; in gran gala, azzurro e scintillante, quando soffiava il maestrale e tutto pareva tirato a lucido, fresco d’ intenti e desideri.
Lei ci parlava, col mare, gli chiedeva di proteggere suo padre e d’ispirarle bei temi, di quelli che la maestra Marcella leggeva a voce alta alla classe mentre il suo cuore era un tamburo e le guance diventavano rosse: un supplizio far conoscere a tutti i suoi pensieri, eppure in fondo le piaceva, la rendeva orgogliosa e le faceva pensare che da grande avrebbe fatto la scrittrice. Quella maestra la faceva andare a casa sua di pomeriggio, insieme a due altri bambini, per aiutarla a preparare la lezione del giorno dopo. Infatti aveva un problema alla vista, un glaucoma progressivo che le condizionava le capacità visive giorno dopo giorno: eppure, sia per le necessità economiche della famiglia che per il grande attaccamento che aveva al suo lavoro, continuava a insegnare. In quelle occasioni, dopo la preparazione dei compiti, facevano merenda tutti insieme, con ciambelline cosparse di zucchero a velo che la donna comprava per loro dal fornaio, al ritorno da scuola; e, quel che piaceva di più a Irene di quelle mezze giornate, era che la maestra, prima di salutarli, raccontava le storie dei libri che aveva letto e che anche loro avrebbero potuto leggere: dalle avventure di Peter Pan, il bambino che si rifiutava di crescere, e della minuscola fata Trilli, a quelle del Piccolo alpino, un bambino che aveva davvero vissuto con i soldati della Prima guerra mondiale, dei quali era diventato la mascotte; dalle vicende sentimentali e familiari delle quattro sorelle di Piccole donne, sullo sfondo della guerra di secessione americana, all’epica impresa di Capitano Achab sulle tracce di Moby Dick, la gigantesca balena bianca diventata la sua ossessione…
La maestra Marcella parlava, parlava scordandosi, per un’ora, tutti i suoi problemi: la famiglia al di là del canale, il suo sguardo sempre meno lucido, l’impossibilità, presto, di continuare a insegnare, immersa in quel mondo che amava, le letture, la compagnia dei suoi bambini. Loro, d’altra parte l’ascoltavano a bocca aperta, i visi assorti in quello di lei, cercando di superare la barriera delle spesse lenti per scorgere il colore di quegli occhi belli e malati. Poi l’incanto finiva: - Bambini, è l’ora di tornare a casa, sennò si fa buio e i vostri genitori stanno in pensiero! A domani…- li salutava con un unico abbraccio e loro si congedavano a malincuore ancora nel mondo degli eroi di carta e di fantasia.
La mattina dopo, Irene percorreva trotterellando il lungomare, la cartella in mano, il cappottino rosso sopra il grembiule bianco e tanta voglia di arrivare presto in quell’aula gelata. Qualcuno che abitava vicino si portava dietro la borsa dell’acqua calda ma lei aveva da percorrere quasi un chilometro e il calore si sarebbe disperso strada facendo.. camminava di buon passo, le gambette leste rosse per il freddo, dato che i calzettoni stentavano a lambire le ginocchia. Se il mare era di scirocco, nel punto dove sbatteva con più violenza sulla massicciata della strada, non era improbabile che gli spruzzi la raggiungessero e la bagnassero: così correva trafelata tra un’onda e l’altra, gareggiando con lei a chi arrivava prima; oppure, se proprio l’acqua furoreggiava e non c’era verso di sfidarla, la bambina abbandonava la strada asfaltata e passava attraverso il viottolo dei campi retrostanti. In quel caso, però, il tamburo del cuore batteva più forte, perché si avvicinava di più al “castello”, croce e delizia della sua fervida immaginazione. A farle compagnia, c’era comunque quasi sempre, a quell’ora della mattina, l’arrivo della nave da Portoferraio per Piombino: faceva una sosta, ma al largo, al suo paese, perché era il più vicino alla prospiciente costa toscana. Il barcone carico di passeggeri le andava incontro sfidando il malumore del mare e se ne ritornava indietro quasi vuoto. Se invece il vecchio brontolone era proprio intrattabile, la nave non si fermava, tirava orgogliosamente dritto puntando direttamente al porto del continente e i passeggeri indispettiti se ne ritornavano a casa.
-Bambini, buongiorno, camminate un po’, scaldatevi prima di mettervi a sedere, siete paonazzi per il freddo… Ora accendiamo la stufa, poi diciamo la preghiera, non vi levate i cappotti per ora…- si raccomandava la maestra.
In ogni aula convivevano due classi, solo la terza era da sola perché gli alunni erano più numerosi e la didattica più difficile, almeno così dicevano le insegnanti: c’era da cominciare a studiare sul sussidiario la storia, la geografia, le scienze, la geometria, la grammatica. Ma a Irene le nuove materie non facevano paura: si sentiva una spugna, uguale a quelle che trovava a volte sulle spiagge dei suoi vagabondaggi, gialle, informi e profumate di salsedine. Era curiosa di tutto e quell’ansia di sapere le riempiva le giornate, compensava le incomprensioni con gli adulti e con i compagni, le allargava a dismisura gli orizzonti, la faceva sognare a occhi aperti. “Irene scendi dalle nuvole” si sentiva dire e allora si scuoteva e ruzzolava giù. Durante l’intervallo, i bambini tiravano fuori dalle cartelle la colazione e in quei momenti tutta la stanza odorava di mortadella o di marmellata. Se il vento soffiava e il mare gli teneva testa, c’era da divertirsi a guardarlo, al di là dei vetri, quando si scagliava contro gli scogli sottostanti frantumandosi in una festa di schiuma e arrivando a lasciare sulle finestre minuscole alghe e lacrime di sale. All’uscita, se il tempo era cattivo, Irene trovava la mamma ad aspettarla, col foulard in testa e l’ombrello aperto a sfidare lo scirocco; le piaceva un sacco ritornare in sua compagnia a casa, insieme correvano, scherzavano, si raccontavano brandelli della mattinata appena trascorsa:
-Ha scritto babbo…ho fatto la minestra che ti piace…ti ho comprato Alice nel paese delle meraviglie…-
-C’è una novità- le disse un giorno, tutta eccitata- i nonni hanno comprato un televisore…ti piacerà…c’è anche la TV dei ragazzi! - la bambina restò a bocca aperta, sapeva che in paese ce n’erano pochissime di quelle scatole magiche che offrivano suoni e immagini, solo i bar e i ricchi le possedevano
-Mamma, che dici!?-
-Sì Irene, lo sai che il nonno è andato in pensione e con un po’ di quei soldini ha voluto fare questo bel regalo a tutti…-
-Evviva, non ci posso credere, sono proprio una bambina fortunatissima!!!- e abbracciò così forte sua madre che dalla foga finirono per terra tutte e due.
Da quel giorno, alle cinque di pomeriggio, in soggiorno a guardare lo schermo magico non ci furono mai meno di quattro-cinque bambini.
La sera poi succedeva che se davano trasmissioni di successo come Lascia o raddoppia? dalle case intorno alla sua, come le chiocciole quando smette di piovere e fa capolino un raggio di sole, uscivano i vicini con la sedia impagliata in mano per chiedere ospitalità ai fortunati possessori del televisore. Per Irene quelle serate erano deliziose, divertenti e animate come normalmente non accadeva, e perciò aspettava con ansia il giovedì, sperando che non piovesse o non soffiasse forte il vento di tramontana, altrimenti la lieta brigata se ne sarebbe rimasta tappata in casa propria.
Anche in quest’ultimo caso, comunque, pazienza…solo due sere dopo, il sabato, c’era la trasmissione che in assoluto amava di più e che le metteva addosso allegria e buonumore, il Musichiere con Mario Riva. Il presentatore romano, affabile, simpatico, ironico e cordialissimo con i concorrenti le piaceva assai di più di Mike Bongiorno: sapeva raccontare storielle divertenti e aveva ospiti di fama internazionale. Anche in quelle serate, in salotto si faceva posto agli amici che bussavano alla porta, si scambiava con loro qualche battuta sui fatti della giornata e dopo Carosello si stava con lo sguardo incollato al video, commentando a voce alta quel che accadeva e richiamando l’attenzione tra le risate su presunte somiglianze tra chi appariva sullo schermo e i comuni conoscenti paesani (-Non lo vedete che assomiglia tutta a…!?; - Ma è proprio spiccicato a…!-) in mezzo ai reclami di chi, più compunto, esigeva invece il silenzio per seguire meglio lo spettacolo: i concorrenti, infatti, seduti su una sedia a dondolo, dovevano ascoltare l’attacco di un brano musicale e, una volta indovinato il motivetto, si precipitavano a suonare una campanella a vari metri di distanza, per avere diritto a dare la propria risposta: in questo modo accumulavano gettoni per il monte premio finale che si conquistava poi indovinando il “motivo mascherato”. Il successo della trasmissione, che durava ormai da tre anni, era proprio il coinvolgimento che suscitava negli telespettatori che, stimolati da quanto avveniva in studio, gareggiavano a loro volta tra di loro, per arrivare primi a indovinare a quale canzone appartenevano le note musicali camuffate suonate dall’orchestra di Gorni Kramer e cantate da Nuccia Bongiovanni e Johnny Dorelly
2. continua
Maria Gisella Catuogno