Tra i programmi per ragazzi, che si aprivano puntualmente alle cinque del pomeriggio, interrompendo d’autunno e d’inverno la monotonia delle lunghe serate in cui, dopo i compiti e qualche gioco all’aria aperta, si era presto costretti a rientrare a casa per il freddo e il buio incombente, uno di quelli che Irene adorava era la serie di telefilm intitolata Lassie, dove il protagonista era un magnifico pastore tedesco che, col suo fiuto infallibile di detective, riusciva a togliere dai guai il suo imprudente padrone, un fascinoso ragazzo sui tredici-quattordici anni che, agli occhi della bambina, incarnava tutte le virtù dell’altro sesso; accanto a lui Poppy, il grasso amico che costituiva il suo alter-ego, la mamma, una dolce e malinconica signora sempre affaccendata tra torte ai lamponi e raccomandazioni al figlio, e il nonno, un vecchio arzillo pieno d’esperienza e di buon senso: nessuna traccia del padre né di altri fratelli.
La famigliola si aggirava in una casetta che per Irene era quella delle fiabe: sempre tutto a posto, una porta finestra con i vetri all’inglese e tendine inamidate, il prato rasato davanti all’ingresso naturalmente abbellito da una veranda.
Lassie, per la quiete domestica che suggeriva, pur nell’ansia dei pericoli corsi dai personaggi, faceva da contraltare alla ben più dinamica serie di Rin-tin-tin, ambientata in un fortino dove i soldati yankee tengono sotto controllo i minacciosi indiani, dipinti come loschi figuri dediti all’alcol e alla violenza, cattivissimi contro i bianchi che non esitano a uccidere con frecce avvelenate o con agguati crudeli: anche qui protagonista è un animale, uno splendido cane lupo fedelissimo al suo padrone, un ragazzo sui dieci-undici anni che è la mascotte dell’esercito. Naturalmente i bianchi vincono sempre garantendo alle carovane di non essere assalite dagli Apaches e di continuare indisturbate la conquista del west. Soltanto molti anni più tardi Irene avrebbe saputo da che parte stavano il torto e la ragione, e come i decantati pionieri fossero in realtà i responsabili del genocidio della nazione indiana; allora, retrospettivamente, si sarebbe vergognata del suo tifo per gli yankee e per Rin-tin-tin.
La Tv dei ragazzi non esauriva comunque la sua curiosità televisiva che era attratta anche dai documentari sulla natura: montagne, oceani, laghi, fiumi, pianure, deserti, foreste equatoriali , spiagge tropicali ombreggiate di palme; e poi, ancora, animali di ogni forma e dimensioni nelle più lontane aree della terra, mammiferi, uccelli e farfalle di cui poteva solo immaginare i colori, insetti che le suscitavano ribrezzo o curiosità. Tutto era affascinante e degno di rispetto.
-Mamma, stasera mi lasci vedere qualcosa dopo Carosello? Domani è festa, posso dormire di più…-
-Va bene, ma non ci prendere l’abitudine…-
Così, dopo Calimero piccolo e nero che diventava bianco grazie a Ava come lava; dopo l’ispettore pelato il cui unico fallo nella vita era non aver mai usato la brillantina Linetti che avrebbe vittoriosamente contrastato la calvizie; dopo lo smagliante sorriso di Virna Lisi, che, aiutata da Colgate, con quella bocca poteva dire ciò che voleva; Irene s’ascoltava la sigla finale di Carosello con l’inconfondibile musichetta e i siparietti che si chiudevano, ma sapeva di poter continuare a sognare a occhi aperti guardandosi gli sceneggiati –il termine fiction era di là da venire- dei grandi, quelli con storie di dilanianti passioni, odi inestinguibili e amori travolgenti, in cui lei sguazzava come una ranocchia nello stagno.
Canne al vento le aveva ispirato timore per quei sentimenti, positivi e negativi, così forti e primordiali; Una tragedia americana addirittura panico per il delitto a cui giunge il tormentato protagonista; dei Fratelli Karamavov non aveva capito molto ma le interessava uno degli attori, il bellissimo Corrado Pani, che conosceva come il compagno della sua cantante preferita Mina, di cui sapeva a memoria molte canzoni tra cui Tintarella di luna, che adorava.
Però tra tutti gli sceneggiati che in quegli anni ebbe modo di gustarsi al televisore dei nonni, quello che le sarebbe rimasto impresso in maniera indelebile nella mente e nel cuore fu Ottocento, ossia la ricostruzione della vicenda umana e politica della nobildonna Virginia Oldoini, in arte la Contessa di Castiglione. Sarà perché capiva bene lo sfondo storico che faceva da scenario alle complicate vicende dei personaggi, quella Seconda guerra d’indipendenza che la maestra Marcella aveva così bene spiegato; sarà che la bellezza e la leggiadria della protagonista non potevano lasciare indifferente una bambina della sua età; sarà perché gli intrighi politici e le armi di seduzione che Virginia usava con la stessa disinvoltura dei suoi sontuosi abiti scollati, volteggiando col cavaliere di turno in un valzer senza fine, la sorprendevano e la entusiasmavano per la passione patriottica che la signora ci metteva; fatto sta che Vittorio Emanuele II, Cavour e Napoleone III, furono da lei sempre associati, negli anni a venire, alla spregiudicata creatura e al teleromanzo che aveva visto da bambina, senza perdersi una battuta.
Ma anche il mondo reale contemporaneo, la guerra fredda tra USA e URSS o quella calda di tanti angoli della Terra, gli avvenimenti che coinvolgevano milioni e milioni di persone, le aspettative che certi capi governo o di stato alimentavano, la corsa allo spazio entravano nella sua casa; non ne era tagliata fuori, sebbene vivesse in una piccola isola circondata dall’azzurro: con la radio, la televisione, i giornali, veniva a conoscenza dei fatti italiani e internazionali e avvertiva che in qualche modo tutto quanto si riverberava nella sua modesta quotidianità, se non altro perché i suoi ne parlavano tra un boccone e l’altro, mentre erano seduti intorno al tavolo da pranzo.
In particolare, delle vicende internazionali, la colpì l’elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America di John Fitzerald Kennedy, candidato democratico, contro l’avversario repubblicano Nixon. Non sapeva perché ma il sorriso di quell’uomo, il suo portamento, la stessa capigliatura l’affascinavano e l’incantamento aumentava se al suo fianco c’era la bella moglie Jacqueline. Che coppia meravigliosa erano, insieme! Eppure lei aveva letto su un giornale che era in casa che lui non le era fedele, che piaceva a troppe donne per essere un buon marito e che una delle sue passioni era un’attrice americana biondissima, che faceva innamorare tutti gli uomini del mondo Marilyn Monroe! Che confusione gliene era venuta in testa, allora: come era possibile? Perché ai mariti non bastava la propria moglie? E le mogli, che facevano e pensavano? La faccenda la turbava non poco.
Molto meno interessante era per lei l’altro grande politico del momento, a capo della Russia, come spesso sentiva dire, invece che URSS: si chiamava Kruscev ed era infinitamente meno bello di Kennedy! Era basso, grasso e pelato e la moglie era proprio il contrario di Jacqueline…però di questo presidente aveva sentito parlare bene, dicevano che era molto molto più bravo e buono di Stalin, che l’aveva preceduto! Dicevano che lui era per la verità e che aveva rivelato tutte le malefatte del dittatore coi baffoni…le stava dunque simpatico e ascoltava volentieri i suoi discorsi.
Si annoiava di più a sentire i fatti della politica italiana, che le parevano monotoni e difficili da comprendere: Fanfani, Tambroni, Segni, Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Comunista, Movimento Sociale…le sembravano nomi e sigle incomprensibili ma familiari perché giornalmente ripetute. Intuiva soltanto che alcuni avevano più ragione di altri e si proponeva di saperne di più per il futuro. Ma fra tutti i personaggi televisivi, in assoluto il suo preferito era un uomo anziano, dal fisico tarchiato e dallo sguardo dolcissimo, spesso vestito di bianco, con lo zuccotto sulla testa pelata, che era per lei quasi un altro nonno: lo chiamavano Giovanni XXIII, lei semplicemente papa Giovanni.
I suoi discorsi la lasciavano stupita ed emozionata, perché c-a-p-i-v-a quello che diceva e sentiva che lo diceva col cuore; spesso poi si rivolgeva ai bambini e raccomandava ai grandi di dare un bacio da parte sua ai loro piccoli.
Quella figura ingombrante ma agile, quelle mani sempre protese in segno d’accoglienza la rassicuravano e la consolavano quando capitava qualcosa di brutto, che non avrebbe voluto sentire.
Il 2 gennaio di quel 1960 -il Capodanno appena trascorso, il presepe in attesa della visita dei Re Magi al Bambinello, il piccolo abete finto scintillante di fili argentati e di palline di vetro soffiato- fu trasmessa la notizia della morte a soli 41 anni di Fausto Coppi, il campionissimo.
-Chi mamma?! Quello più bravo di tutti? Quello alto, magro, con quel sorriso buono e un po’ triste…che ha vinto in Italia, che ha vinto in Francia…-
-Proprio quello, Ire, proprio quello…-
-Ma perché? Era giovane, scalava le strade di montagna, non era mai stanco…-
-Una malattia che ha preso in Africa, forse la malaria…
A lei pareva impossibile che quel campione pieno di vitalità e generosità fosse stato fermato per sempre da qualcosa di talmente piccolo da dover essere guardato al microscopio: germi, batteri, virus…come imparava a scuola. Ne era sorpresa e angosciata e l’immagine della morte si faceva strada nei suoi pensieri, anche perché l’anno precedente aveva bussato alla sua casa portandosi via la nonna paterna –e ricordava ogni particolare di quella figura rigida distesa sul letto, vestita di nero, freddissima quando ne aveva baciato la fronte immacolata- .
Allora l’idea di quell’oscuro passaggio a un pianeta sconosciuto e l’intuizione della sofferenza che lo precedeva –anche la nonna era stata tanto in ospedale e poi a casa, ma quasi irriconoscibile, un’altra persona- abbatteva le fragili barriere di protezione che l’istinto di sopravvivenza erigeva e la morte appariva angosciosamente certa, inevitabile. Ma a rendere ancora più insopportabile la scoperta era che non esisteva nessuna giustizia nella dipartita: non sempre veniva rispettata l’età anagrafica e si poteva morire anche da giovani, molto prima dell’età di Coppi, e addirittura da bambini.
Al cimitero, quando andava a portare mazzetti di margherite o ciclamini alla sua nonna, vedeva quelle piccole tombe, le date estreme di vite appena sbocciate e subito spente da un soffio, come le candeline sulla torta di compleanno.
Allora, impaurita, cercava di più la vicinanza della mamma, perché le sembrava che, con lei accanto, niente di tragico potesse accadere. E poi, nei momenti in cui era da sola, per esempio la sera, sotto le coperte, se quella orribile signora vestita di nero, con la falce in mano, compariva di nuovo, per contrasto le opponeva immagini di tutt’altro genere: il sole abbagliante dell’estate, i cespugli di rose a maggio, un campo di calcio nell’esultanza di un goal appena segnato, l’arcobaleno dopo la pioggia, le lucciole nella vigna del nonno, i papaveri rossi sul ciglio della strada, il più bel plenilunio di primavera, i suoi personaggi, reali o immaginari, prediletti. Così si addormentava col talismano della fiducia nel cuore.
3. continua
Maria Gisella Catuogno