Ritornando dai nonni che emozione era riprendere il filo interrotto del colloquio col mare, respirarne il profumo di salmastro tutte le mattine, vedere la sua superficie trascolorare dal grigio allo zaffiro, a seconda dell’umore del cielo! Anche la lontananza degli amici pesava meno.
Per arrivare a casa era però inevitabile passare davanti alle torrette del castello che, come una calamita, attiravano la sua attenzione pur provocandole una strana ansia. Decise un giorno di saperne di più e di rivolgersi quindi a chi aveva la maggiore memoria storica di quella costruzione.
-Nonna mi racconti del castello?-
Quella villa austera, con i merli alla sommità, le pareti grigie, le grandi finestre, il parco intorno, le statue di bellissime donne o strani bambini che aveva sentito chiamare puttini, era nel suo immaginario da quando aveva cominciato a pensare:
-Che vuoi che ti racconti!?-
-Tu la sai tutta la storia, nonna… chi erano i suoi padroni, le feste da ballo, i fantasmi…-
-Allora, tanto tempo fa –cominciava con pazienza la nonna, i vivaci occhi castani che brillavano dietro gli occhiali, i capelli candidi raccolti a chignon sulla nuca- c’era un uomo intraprendente che possedeva navi e faceva il capitano; guidava i velieri con coraggio in mezzo alle tempeste e anche quando i suoi uomini erano bagnati fradici, impauriti, e invocavano la Madonna per la salvezza, lui dava ordini, forte e sicuro, senza cedere mai. Ma gli anni passavano, il sale gli ricamava le rughe sul viso, il sole glielo cuoceva, le bonacce si alternavano alle burrasche ma il suo tetto era sempre il cielo, la sua terra l’acqua del mare. Era stanco, non conosceva quasi i suoi figli, e sua moglie stava per lasciarlo, non sopportando più le sue continue assenze. Allora decise: -Ritorno a casa, alla mia isola, farò qualcos’altro…-
Aveva guadagnato tanti soldi e non aveva speso quasi nulla per sé: vendette tutto quello che possedeva e dette l’addio al mare. Investì i guadagni di una vita nell’acquisto della concessione dello sfruttamento delle miniere, trasformandosi da lupo di mare in imprenditore. Dopo le prime difficoltà cominciarono a arrivare ricchezze, che divennero negli anni tante, insperate e quasi favolose. Si costruì una villa sul mare, proprio a picco dell’acqua, Irene, quella che si vede anche dalla finestra della nostra cucina… era grande e dall’aspetto severo, ma intorno, per ingentilirla, ci volle un boschetto di piante mediterranee e un viale alberato che arrivava fino alla cancellata che dava sulla strada, e statue e fiori in tutte le stagioni. C’era un giardiniere che aveva un gran da fare a piantare a ottobre i bulbi dei tulipani o dei narcisi o dei crochi, a potare a gennaio i rosai, a mettere al riparo dal freddo e dal vento di tramontana i gerani che per tutta l’estate avevano rallegrato di rosa o di rosso le passeggiate dei padroni e degli ospiti. A maggio poi il profumo delicato delle rose si spandeva ovunque e gareggiava con quello delle fresie. Ma Giuseppe volle di più: non gli bastò farsi costruire la villa con il parco, un moletto per il suo panfilo, una peschiera tra gli scogli per mantenervi vivo il pesce fino alla cottura; progettò un’altra villa, poco lontano, che volle chiamare Bellariva: doveva avere per avamposto due torrette sul mare e il resto dell’edificio più a monte: nel mezzo un viale alberato e anche qui statue e fiori…- la nonna fece una pausa che a Irene sembrò troppo prolungata-
-Ma nonna, non ti fermare, raccontami ancora…-
-Irene, fammi prendere fiato, almeno… siediti qui e guardami mentre faccio la schiaccia briaca, così impari!- rispose la donna affaccendata a preparare i tradizionali dolce natalizio, senza il quale la festa sarebbe stata meno bella, mentre il nonno, come sempre, curava il suo campetto, la capra, le galline, i conigli. Era da poco in pensione dopo il lavoro massacrante delle miniere, ma senza far nulla non ci stava, nemmeno legato. Non aveva più il cavallo, che era la sua passione, e aveva tenuto fino a qualche anno prima, ma si teneva occupato con tutto il resto. Trovava sempre qualcosa di utile da fare. La mamma badava alla casa e a tutti i suoi abitanti, soprattutto al fratellino di tre anni, che era un terremoto, ma si faceva perdonare tutto con i suoi capelli biondi e i suoi fantastici occhi blu. Il babbo stava per ritornare, la sua presenza aleggiava in ogni stanza e in ogni discorso e sicuramente, a ridosso del Natale, sarebbe stato carico di regalini per i suoi bimbi, comprati in tutti i porti del Mediterraneo. E la festa sarebbe stata speciale.
-Allora, nonna, che mi dicevi di questo signore, del castello, della villa Bellariva?-
Lei riprendeva il filo interrotto del discorso, mentre le mani parevano lavorare da sole, intridendo farina, zucchero, olio d’oliva caldo, noci e mandorle triturate, pinoli interi, vino bianco e rosso intiepidito, scorza d’arancia e aleatico, che diventavano, sotto il suo tocco esperto e insistente, un’unica pasta, morbida, elastica e profumata di buono.
-Ti dicevo che queste persone vivevano da principi: oltre alle ville, viaggiavano, avevano amici ricchi e potenti, possedevano un veliero bellissimo, tutto con le vele di seta, invitavano qui all’Elba ospiti importanti, scrittori, politici, industriali, erano i signori del paese, la gente li chiamava così, i signori, senza aggiungere il nome, e ci si capiva al volo, non occorreva dire altro. I pesci più buoni, le orate, i dentici, i saraghi, i paraghi erano per loro; e così le aragoste, le granceole…i pescatori lavoravano per loro, i contadini lavoravano le loro terre: il fattore, che amministrava tutto, aveva una bella casa tutta sua con annesse le scuderie dei cavalli e si produceva tanto vino, olio, grano, frutta…
Questo posto era un giardino allora…
Ecco, prendi la teglia, ci stendiamo l’impasto, speriamo che la stufa sia calda al punto giusto, sennò ‘sta torta o resta cruda o viene bruciata…Ecco, così dovrebbe andare bene…mettiamoci sopra altro olio e vino e inforniamo….-
La bambina non si perdeva un gesto della nonna: quel tipo di dolce lo si faceva solo una volta all’anno e il suo profumo era inconfondibile: le ricordava le feste degli anni precedenti, le novene, l’albero, il presepe, il muschio bianco e quello di un verde tenero, l’attesa del babbo e la speranza di qualche regalo tanto atteso. Anche quest’anno, tra pochi giorni, se ne sarebbe ripetuta la magia e l’incanto. E poi sapeva che anche la schiaccia briaca aveva una storia, come tutto, come il più semplice filo d’erba: era senza lievito e senza uova per potersi mantenere a lungo, nelle stive delle navi perché se la portavano i marinai, quando partivano, per avere meglio con sé il profumo e la nostalgia di casa.
-Nonna, ora che hai infornato, siediti qui e continua a raccontare-
-Va bene, ma non posso sedermi, lo vedi, devo lavare tutto e mettere la cucina in ordine…però posso parlare mentre faccio le cose…allora ti dicevo… Giuseppe morì lasciando un immenso patrimonio ai suoi due figli, Ubaldo e Giuseppina: erano così ricchi e potenti che l’idea di essere seppelliti nel piccolo cimitero del paese, alla loro morte, non gli andava bene per nulla, così fecero venire un architetto famoso, che si chiamava Coppedé, che già aveva fatto il Palazzo dei Merli a Portoferraio, e lo incaricarono di costruire sulla sommità di una collina, che si potesse vedere dal mare e dal paese, una cappella funebre a forma di faro per ospitare loro e tutta la famiglia. La conosci: è alta, mette soggezione con quei mostri in bassorilievo… ora su quei prati ci si va a fare la pasquetta, le scampagnate…infatti, poi, quando fu finita, dopo tanto lavoro e tanti soldi spesi, non glielo diedero mica il permesso di seppellirci i morti! E allora la gente ha cominciato a farci le passeggiate…
Insomma, per fartela breve, questo sor Ubaldo diceva che nemmeno con una pala sarebbe riuscito a finire i suoi soldi…-
Irene a queste parole si immaginava forzieri colmi come quelli di Paperon de’ Paperoni e Ubaldo, con la pala in mano, tutto sudato, che cercava inutilmente di svuotarli.
Poi l’odore inconfondibile del dolce che cuoceva e si insinuava in tutte le stanze avvolgendole della sua fragranza, la strappava dalle fantasticherie: -Svelta, svelta, che si brucia…- s’affrettava la nonna e con un gesto rapido apriva quello sportello che per la bimba era come la porta dell’inferno e ne estraeva, cotta al punto giusto, la ricompensa delle sue fatiche.
-Ma, insomma, nonna, come è andata a finire questa storia!? Ce l’ha fatta o no il sor Ubaldo a consumare i suoi soldi?-
-Certo che ce l’ha fatta! C’è riuscito benissimo…tanto è vero che a un certo punto, a forza di spendere e spandere, s’è ritrovato quasi povero, ha dovuto vendere le sue ville a poco prezzo e mettersi a lavorare!-
A Irene questa mesta conclusione della storia, così diversa da quella delle fiabe che conosceva, metteva inquietudine: certo se l’era meritata il suo protagonista, però che peccato! Ne traeva la morale che sarebbe stata ben attenta ai soldi del suo porcellino salvadenaro, anche se erano così tanti che nemmeno riusciva a contarli…
Quando andava a letto dopo questi racconti, lo sciabordio del mare diventava nenia e poi dolce ninnananna: allora sognava i velieri che solcavano gli oceani, la furia delle onde che si abbatteva sugli scafi e il capitano intrepido che sfidava le tempeste, come Achab la balena bianca; e poi le acque che diventavano immense distese di monete luccicanti nelle quali sguazzavano tutti i personaggi di quella strana storia.
Al mattino, le pareva che il sogno avesse la sua naturale conclusione nella tiepida realtà che l’aspettava perché il primo suono che distingueva era il fragore o il mormorio delle onde sotto casa. Allora, con gli occhi chiusi, immaginava di navigare con suo padre quel mare e pensava che non avrebbe avuto paura di lui, neppure se si fosse scatenato, perché lei aveva gli argomenti giusti per ammansirlo e ridurlo alla bonaccia, come aveva fatto San Francesco col terribile lupo di Gubbio. Si sentiva una creatura marina e si meravigliava di non odorare di sale o di non avere alghe per capelli.
5. continua
Maria Gisella Catuogno