Nuove orde barbariche spingevano da oltralpe, quelle longobarde capitanate da Gummarith, futuro duca di Lucca; nel 573 Cerbone, rientrato a Populonia, si vide costretto a fuggire nuovamente per mare, come quarant’anni prima dall’Africa, e sbarcò con alcuni discepoli nella vicina Elba, scegliendo come «latebra» l’attuale Grotta di San Cerbone.
La grotta è vicina ad un limpido torrentello, affluente del sottostante Fosso di Pedalta, ed avrà certamente fornito a Cerbone e ai suoi confratelli il necessario approvvigionamento d’acqua. Qua, nei limiti che la frequente accidia consentiva, vissero in una verde tranquillità fatta di vegetazione lussureggiante, cieli lucenti e acque gorgoglianti di sussurri, tutti segni di un Dio imminente. Cerbone vide il suo Dio dopo due anni; l’ultima cosa che avrà scrutato, attorniato dai suoi amici, fu forse la cupa volta della caverna e uno squarcio d’azzurro. Dopo tanto vagare, era arrivato alla sua meta, l’agognata unione col suo principio, mentre abbandonava la vallata con un soffio dello spirito.
La storia tangibile oggi mostra l’Eremo di San Cerbone nel piccolo pianoro alle pendici del Monte Capanne, immerso in secolari castagneti, a quota 530; il primitivo impianto della chiesa potrebbe risalire a pochi decenni dopo la morte di Cerbone, vale a dire agli inizi del VII secolo. Nel 1744 Giovanvincenzo Coresi del Bruno, con ingenua immaginazione, scrisse che la chiesetta «...la dicono da Lui fabbricata e vi sono dei grossi sassi ove è scolpita una croce per memoria, et ove Egli con un asinello conduceva i materiali.» È ipotizzabile la presenza di una seppur minima struttura, sia stata una semplice edicola commemorativa o un «tropæum», a testimonianza del luogo ove il Santo brevemente visse e morì.
Successivamente essa venne ampliata o ricostruita in età romanica, come avvenuto per altri arcaici edifici sacri dell’Arcipelago. Agli inizi del Quattrocento il religioso Tommaso da Firenze fece trasformare la struttura in un convento, tramite il duplice consenso del vescovo populoniese e di Iacopo I Appiano, che vi appose il proprio stemma ancora visibile, frammentato per metà, negli anni Sessanta del Novecento. Tuttavia, a causa delle proibitive condizioni ambientali del luogo, con interminabili e umidi inverni, i monaci, che portavano un abito nero col simbolo di San Cerbone sul petto, vi resistettero non più di cinquant’anni ed abbandonarono il convento. Ma nel Settecento, lassù, si successero molti eremiti, tra i quali, però, non vi furono religiosi o sacerdoti.
L’interno della chiesa, che conserva tracce di decorazioni parietali sul lato destro, accoglieva due altari laterali intitolati a San Giacomo e alla Madonna della Neve; l’altare maggiore contiene un quadro raffigurante San Cerbone «in cathedra» accompagnato dalle oche del miracolo, di eccezionale fattura. In passato la chiesa fu simbolicamente divisa in due parti: quella orientale, contenente l’altar maggiore, era di pertinenza del Poggio, mentre la porzione occidentale spettava a Marciana. Di questa virtuale ripartizione, giustificata dalla posizione geografica dell’edificio, è testimonianza l’amaro detto marcianese «Santa Caterina è nossa, di San Cerbone ce n’avemo mezzo».
Presso il fianco sud della chiesa, dove un muretto a secco piegava ad angolo, era visibile un albero di fico, chiamato Fico di San Cerbone, che aveva la particolarità, data la rilevante altitudine e la fortissima umidità del luogo, di produrre frutti a maturazione ritardata, in concomitanza con la festa del Santo, il 10 ottobre.