Era la primavera del 1966. Mario Cignoni, un geologo riese innamorato del suo paese e della sua isola, mi telefonò per dirmi che aveva notato, a due passi da Rio Marina, ceramiche e ossa all’interno di una grotta usata come rifugio durante l’ultima guerra. Seguirono nell’immediato un salto da Pisa all’Elba e un sopralluogo nella cavità, che si apre in località il Piano di S. Giuseppe a pochi metri dalla strada provinciale. Ci inoltrammo nella stretta e lunga (circa 30 metri) fenditura rocciosa, pressoché al centro di una collinetta di calcare cavernoso a forma di tumulo. Recuperammo in superficie pochi reperti e fu fatta una prima analisi, che però non riuscì a fugare tutti i dubbi: fu abbastanza facile capire - è vero - che si trattava di resti ossei umani e che le ceramiche risalivano a qualche migliaio di anni or sono, ma non fu semplice, lì per lì, attribuire gli uni e le altre a questa o a quella civiltà preistorica.
Il mistero fu risolto in breve tempo presso l’Istituto di Paleontologia Umana dell’Ateneo pisano, dove peraltro stavo ultimando la mia tesi di laurea sugli insediamenti elbani dal paleolitico all’età del bronzo. Il prof. Antonio Mario Radmilli, nostro ‘capo’, concluse compiaciuto che eravamo di fronte al ritrovamento di una straordinaria necropoli riferibile alla cultura eneolitica di Rinaldone e decise di affidarmi il primo saggio scientifico di scavo per inquadrare la situazione stratigrafica.
Il lavoro non si presentava agevole perché vicino all’imboccatura c’erano da rimuovere alcuni grossi massi crollati dalla volta, ma mi dettero una mano, con la loro giovanile energia, gli amici marinesi di allora (e di sempre). Nino, Mario, Giancarlo, Ilvio, Sergio, Eraldo, condivisero con me le fatiche, le ansie e le aspettative della scoperta. I risultati furono positivi: vennero in luce ossa lunghe e resti cranici pertinenti ad almeno tre individui, parecchi frammenti ceramici di vasi cosiddetti ‘a fiasco’ e due punte di freccia in diaspro. Fu definito, così, che la cavità era stata usata come sepoltura collettiva in un momento tardo dell’età del rame, fra 4000 e 3800 anni fa. Era la conferma tanto attesa e, fin dai primi accertamenti, assunse il colore dell’evidenza la stretta relazione che intercorreva fra gli inumati della grotta di S. Giuseppe, le miniere di Rio, la metallurgia del rame e il suo commercio.
Nei tre anni successivi (1967-1969) l’antro fu oggetto di una campagna sistematica di scavo diretta dal prof. Giuliano Cremonesi, il quale successivamente effettuò una serie di approfondimenti esemplari, come sapeva fare Lui, sul notevolissimo complesso di manufatti recuperati. Nell’ambito delle forme vascolari, decorate spesso con bugnette e di rado con motivi ornamentali ‘a spazzola’ oppure con incisioni profonde che disegnano angoli sovrapposti, risaltano i vasi a fiasco con collo subcilindrico e anse tubolari; le ciotole o scodelle emisferiche con prese a linguetta; i kyathoi globulari con o senza bottone all’apice dell’ansa a nastro. Fra gli oggetti metallici è degno di nota un pugnale di rame a lama triangolare e due fori circolari presso la base. Nell’industria litica - composta da circa 50 cuspidi di freccia - sono prevalenti gli esemplari a ritocco bifacciale accurato, mentre l’industria ossea è connotata da punte con taglio sbiecato.
Di pari passo con l’esame dei reperti fittili e metallici procedeva l’analisi, altrettanto importante, dei resti scheletrici, che fu condotta magistralmente dal prof. Francesco Mallegni. La prima pubblicazione del celebre antropologo è del 1972, la seconda (con collaboratori) risale al 1999. Ecco qualche dato mutuato dai suoi studi:
nella grotta di S. Giuseppe furono sepolti almeno 90 individui;
i maschi adulti avevano una statura media di 166 centimetri, le femmine di 150;
di 34 individui è stato possibile calcolare l’ età di morte: i più giovani morirono a 3-9 mesi, i più vecchi a 50 anni;
in tre crani compaiono fori traumatici che, in due casi, furono causa di morte;
si trattava di una “comunità ristretta caratterizzata da notevole endogamia”, ossia da ‘matrimoni’ fra donne e uomini legati da vincoli sociali o familiari;
la dieta alimentare era equilibrata e ricca e “sembra riflettere un elevato status socio-economico”.
Già nel 1974 il prof. Radmilli affermava che, relativamente ai minerali di rame e ai prodotti della lavorazione, per i gruppi di Rinaldone dell’Elba (purtroppo finora non ne sono stati scoperti gli insediamenti) non si può escludere “ l’ipotesi di una diretta fornitura a genti che facevano la spola dall’Oriente all’isola”. E’ un’intuizione che, a distanza di quasi 40 anni, non ha perso il suo smalto: la fama della inesauribilità delle miniere elbane deve aver spinto gruppi di cercatori di minerali - a partire almeno dal 2000-1800 a. C. - a tracciare una frequentata rotta commerciale fra le coste dell’Anatolia e l’Elba. Rotta che, circa 500 anni più tardi, sarà percorsa da Giasone e dagli Argonauti, eroi di quell’epopea di conoscenza e di traffici marittimi cantata, fra gli altri, dal poeta ellenistico Apollonio Rodio.
Michelangelo Zecchini (foto Silvestre Ferruzzi)