Un micio, quasi certamente ben pasciuto, che con tutta probabilità viveva in Val di Cornia, camminò per un tratto su dei mattoni di argilla appena messi a seccare al sole, lasciandovi impronte nette e profonde.
Non poteva avere contezza, il felino, di compiere una passeggiata nella storia, ignorava che le sue orme sarebbero state osservate e catalogate più di due millenni dopo un nutrito branco di studiosi cuccioli d'uomo, che quei mattoni li avevano tratti faticosamente dalla terra dell'Isola di fronte e ripuliti, insieme a tanti frammenti e oggetti di quotidiana banalità: anfore ed enormi vasi (dolia per chi ci capisce qualcosa) nei quali fermentava e si custodiva il (pessimo) vino dei romani, chiodi di ferro che "legavano" i travicelli del tetto di una cantina costruita dopo che l'Elba era stata spogliata di quasi tutte le sue rigogliose foreste diventate combustibile per "ridurre" il suo ferro, dopo quello che forse si può definire il primo disastro ecologico compiuto dagli umani, iniziato a maturare in tempi in cui Roma era un anonimo villaggio, forse perfino tappa dei carovanieri che proprio quel ferro isolano e delle colline metallifere portavano a Sud.
Un secolo prima della nascita di Cristo i Valeri, che pure avevano fatto le loro fortune con quella devastante ed inquinante industria che aveva fatto chiamare l'Elba "Aethalia" (del colore della fuliggine), puntarono ad una "riconversione" dell'isola sfruttando un altro suo grande potenziale: quello agricolo, lanciando pure quello che oggi si definirebbe "agriturismo".
Le tracce del micio portano giusto a quel periodo, quando, in quella che oggi è la proprietà della famiglia Gasparri, a San Giovanni, ad un tiro di schioppo da Portoferraio, i Valeri costruirono una fattoria che, una campagna di scavo dopo l'altra, si rivela sempre più importante ed imponente, tale da far "culturalmente" concorrenza alla vicina splendida villa che (realizzata dalla stessa famiglia) avrebbe visto la luce mezzo secolo dopo l'insediamento ai piedi della collina, e da questo sarebbe stata sostanziata e alimentata.
Tra i segni ed i resti di questa Isola di un'età di passaggio, ancora piena di scorie ferrose fumanti ma già colonizzata dalle viti e dai campi di frumento si muove la ricerca del Prof. Cambi e della sua squadra, alla ricerca del vino perduto, alla caccia di tecniche desuete, approfittando anche di un incendio, una sciagura per chi viveva in quella fattoria ed al tempo stesso una fortuna per gli archeologi di oggi, perché un incendio "fotografa" e fissa con i suoi residui e le sue tracce la realtà di una precisa frazione storica.
L'archeologia vera e seria si fa così, non è faccenda da Indiana Jones, o da immaginifici santoni divinatori ed improvvisatori, è intrisa di studi approfonditi e cultura materiale, di polvere e sudore, non snobba le notizie che provengono dalle fonti letterarie e neppure quelle che si ricavano dalle leggende, ma i riscontri li cerca sul campo anzi sotto, ben oltre le radici delle erbe, tra sassi che che non dicono nulla o quasi al comune transitante sulla crosta terrestre, ma che parlano come libri a chi li sa leggere.
Siamo andati a festeggiare la chiusura della campagna di scavi 2014, con Italia Nostra dell'Arcipelago, con l'impagabile famiglia Gasparri, con Franco Cambi e gli splendidi ragazzi del suo team, che hanno pure giocato agli attori in una sorta di "archeo-cabaret" recitato in costume, proprio nel bel mezzo dello scavo 2014, che ha portato alla luce la vera "cantina operativa" del complesso.
Siamo sempre più radicati nella convinzione che la più urgente azione urbanistica riguardante l'Elba, a cui sono chiamati tutti gli enti territorialmente competenti (dal comune di Portoferraio alla Unione Europea) è quella già sollecitata da Legambiente ed Italia Nostra: porre sotto un ferreo vincolo tutta l'area del piano di San Giovanni a valle della provinciale fino al mare, estendere l'area protetta dalle Prade di Schiopparello fino a Punta della Rena.
Oltre le risorse paesaggistiche che ci sono evidenti e delle quali possiamo già godere, ci sono da conservare, anche per chi verrà dopo di noi, quello che non abbiamo ancora riscoperto: i segni del passaggio di chi ci ha preceduto, e quell'area ne custodisce probabilmente ancora un'infinità.
Chi non lo capisce è destinato a lasciare, nella storia di questo pezzo di mondo, delle "orme" meno rilevabili e meno importanti di quelle del nostro archeo-micio.