Spesso i grandi avvenimenti nascono per caso. In un borgo di Sant’Andrea ancora diviso tra arcaismi e timida modernità, quel 26 luglio 1958 avvenne l’impensabile. Il suo mare di cristallo era stato scelto come sede dei Campionati nazionali di pesca subacquea, e il destino volle che a parteciparvi vi fosse anche il subacqueo ligure Idelmino Callegaro, membro del giovane «Centro sperimentale di archeologia subacquea» di Albenga. Erano gli anni dell’inoltrarsi per la prima volta tra mondi sommersi. Callegaro, inseguendo alcuni pesci, s’imbatté in uno spicinìo di pezzi d’antiche anfore; la profondità, lì a ridosso del promontorio, non arrivava neppure a 10 metri. Non ci volle molto a capire – forti della recente esperienza dello scavo della nave romana di Spargi in Sardegna – che la faccenda andava portata a termine fino in fondo. Il sub trovò anche un curioso manufatto: si trattava della parte superiore di una macina per grano utilizzata a bordo della nave, che fu subito consegnata alla Capitaneria di Porto di Marciana Marina. Per l’antica imbarcazione di Sant’Andrea cominciavano però i primi guai. Le voci corrono all’Elba, e le anfore più superficiali, a partire da quel giorno, vennero in parte trafugate. Per fortuna, il 14 agosto due altri membri di Albenga, Alessandro Pederzini e Renzo Ferrandi, scesero in immersione insieme al documentarista Aldo De Sanctis; era un momento da immortalare con la cinepresa. «È pertanto evidente che si tratta del relitto di una nave oneraria carica di anfore»; questa il telegrafico responso di Pederzini. Ma la nave non era messa granché bene: lunga circa 8 metri, appariva disintegrata dalle vorticose correnti di Sant’Andrea e la poca profondità non aveva certo agevolato la sua conservazione. Il 18 agosto i due subacquei s’immersero nuovamente per sondare lo spessore del giacimento d’anfore, accompagnati da un altro operatore alla cinepresa, Virgilio Cella. Sino a quel giorno erano state recuperate cinque anfore, di cui l’unica integra del relitto, e alcuni dei tappi in sughero che sigillavano il vino contenuto nelle anfore. Questi, a loro volta, erano ulteriormente sigillati da opercoli in calce pozzolanica resistente all’acqua con i timbri dei produttori del vino; ed è così che si seppero i nomi di Marco Furio Vinicio e Caio Vibio Marco. Su alcune anfore, prima della cottura, era stato impresso dal vasaio un segno molto simile ad una lettera R. Un nuovo inverno calò sul mare dell’Elba, e la nave di Sant’Andrea rimase in attesa. Poi, il 30 maggio 1959, dalla Soprintendenza dell’Etruria fu organizzato un vero e proprio scavo scientifico. L’archeologo Giorgio Monaco diresse le operazioni, finanziate dall’Ente Valorizzazione Elba; il comandante Uber Avanzi pilotò il rimorchiatore «Piombino»; i valorosi subacquei Alessandro Pederzini, Renzo Ferrandi, Franco Giambertoni e Aldo Grillantini fecero il resto. Altre anfore frammentarie, con una frizzante ascensione di 10 metri d’acqua dentro gabbie d’acciaio, rivedevano la luce dopo quasi 2000 anni. I subacquei utilizzarono per la prima volta un tubo aspiratore (sorbona) di ben 25 centimetri di diametro, collegato al rimorchiatore; non c’era altro modo per liberare le anfore dal duro blocco di sabbia e fango sottomarino. Oltre ad esse, furono recuperati altri oggetti di bordo: due piccole anfore a fondo piatto e alcuni manufatti di bronzo. Alla fine, il 6 giugno 1959, i subacquei avevano totalizzato 80 ore di lavoro. In quei frenetici giorni, molti curiosi giungevano a bordo del rimorchiatore «Piombino» per assistere personalmente ai recuperi. E grande amicizia nacque tra il comandante Uber Avanzi e l’archeologo Giorgio Monaco; ne seguì un affettuoso carteggio tra il 16 giugno e il 26 agosto 1959, poi interrotto bruscamente dalla precoce scomparsa del comandante. In una di queste lettere, Giorgio Monaco scrisse, con il volo degli occhi sul mare: «Relitti di navi romane a Giannutri, al Giglio e a Pianosa attendono!»
Silvestre Ferruzzi