L'ALBA DELL'UNITA' D'ITALIA ALL'ELBA (1859-1860)
Questa lettera, di cui sotto si riporta integralmente la seconda ed ultima parte, è stata scritta il 12 maggio 1859 da Ricasoli il giorno dopo che è stato nominato ministro degli Interni in un gabinetto di governo formato da Carlo Boncompagni inviato in Toscana come commissario straordinario da Vittorio Emanuele II dopo che il Governo Provvisorio Toscano, costituitosi il 28 aprile 1859, aveva offerto al re piemontese la dittatura sullo stato granducale toscano.
"Il cessato regime granducale non era un governo, perché non secondava le forze morali del Paese, perché non aveva un sistema di sagge massime politiche, non aveva un complesso di ben congegnate istituzioni pubbliche.
Tale non sarà il governo nazionale.
Egli rialzerà prima di tutto il sentimento morale. Non v'è saldezza di governo ove negli uffizi non sia il Cittadino governato dalla Coscienza e miri soltanto al suo privato vantaggio; ed ove le azioni non siano guidate dalla giustizia delle Leggi e dei governanti. In questa guisa potranno rifiorire le scienze, le lettere e le arti; su queste basi l'industria sarà feconda perché proba; e il lavoro sarà produttivo perché non dissipatore; con questa norma le pubbliche amministrazioni procederanno con moto equabile e regolare non scompagnato da quella giusta rapidità nel disbrigo degli affari che gli amministrati hanno sempre diritto di esigere dagli amministratori; né mancherà quella concordia di pensiero e d'opera, che rende veramente efficace e benefica l'azione del Governo.
A questo alto indirizzo che viene dal nuovo essere di tutta l'Italia niun Paese può meglio corrispondere quanto la Toscana per l'antica sua civiltà equabilmente diffusa,per una terra fortunata ove ogni sasso ha una memoria, e dove ogni Città e ogni Castello ha possidenti,negozianti e operai provvisti di capitali materiali e morali.
Questa è la Terra nella quale i Comuni antichi gettarono le fondamenta dei moderni.
Ora devesi operare la istituzione di Municipj con l'animo e con l'intento nazionale. Ogni Città e ogni Castello ricevano il comune impulso,provvedano ai propri bisogni senza credere che i bisogni universali sono loro estranei. Essi non sono altro che parte di un gran tutto e perché questi si muovano nella sfera in cui sono attratte dalla formazione della nazionalità, è necessario che gli uomini più autorevoli delle varie Comunità col consiglio e con l'esempio persuadano e dirigano gli altri. Ora chi non può andare in campo vada nel palazzo del Comune: in ambo i luoghi si opera alla stessa impresa;là col valore delle armi qua con l'operosità
civile.
Allora davvero l'animo nazionale sarà fatto grandissimo perché composto dell'animo di più Cittadini uniti insieme in un solo volere.
Sarà mia cura il provvedere alle tante istituzioni locali che la carità e il senno dei nostri maggiori fondarono. Esse saranno ritirate, ove occorra, alla loro origine, i loro patrimoni saranno vigilati,l'azione loro sarà rinvigorita. Ogni maniera di instituti di pubblica beneficenza saranno (quanto più presto consentono i tempi) richiamati a quel provvido reggimento che migliora e benefica,perché congiunge all'opera politica lo spirito consolatore della carità.
Guai se un movimento sociale sì vasto sì armonico fosse minimamente disturbato! Il disturbo anche piccolo di una parte avrebbe un effetto dannosissimo sul tutto. Ad impedire questi mali che è facile più prevenire che
riparare, due cose io principalmente stimo necessarie. Una virile concordia di tutti i Cittadini; una più efficace ingerenza di tutti gl'impiegati. La concordia non deve solo calpestare le misere passioni del proprio nido, ma deve informarsi al gran sentimento della nazionalità e alla tremenda prova della guerra.
Bisogna stringersi tutti come fratelli,ma armati di senno quanto di ferro per attutire la tendenza e gli affetti men degni di questa Italia che sta per compiere il voto di tanti secoli.
Chiunque non sa immolare i suoi privati interessi non sa essere italiano.
La seconda cosa necessarissima è l'ingerenza degl'Impiegati.
Essi non devono essere gli strumenti servili di un governo assoluto che gli salarii come domestici, ma dignitosi sostenitori d'un principio moralmente politico, cooperatori zelanti,perché coscienziosi, d'un governo nazionale e mantenitori severi ed animosi dell'ordine pubblico e della puntuale osservanza delle Leggi. Essi non devono essere pezzi materiali d'una macchina dispotica, né timidi blanditori di male passioni, ma forze vive, e compagni intelligenti d'un reggimento sapientemente liberale e perciò stesso non
regolato dal capriccio ma dalla ragione e dalla Legge.
Ecco i punti principali della mia fede politica e le norme della mia condotta governativa.
Io la prego Sig. Prefetto a considerarle attentamente per conformarsi ad Esse e trasmetterle e commentarle ai suoi dipendenti. Mi confido di trovare in Lei e in loro pieno consenso e così la certezza che provvederemo insieme al massimo bene della Toscana e dell'Italia.
Dal Ministero dell'Interno
Lì 12 Maggio 1859
Il Ministro dell'Interno
BETTINO RICASOLI "
(Affari generali del governo dell'Elba 1859-1860.Doc.15-100.Circolari da 1 a 42.Circolare n. 11. Archivio storico comune di Portoferraio)
Quando Ricasoli scrive questa lettera ha cinquanta anni.
Davanti a lui sta per dischiudersi un periodo della storia del risorgimento d'Italia in cui sarà protagonista come presidente del consiglio dei ministri del Regno d'Italia per ben due volte.La prima dal giugno 1861 al marzo 1862 succedendo a Camillo Benso, conte di Cavour; la seconda dal giugno 1866 all'aprile 1867 succedendo ad Alfonso La Marmora.
Nella lettera che scrive nelle vesti di una carica così importante da lui assunta per la prima volta (era stato gonfaloniere di Firenze) traspare con evidenza quanto i biografi tramandano su di lui: la profonda religiosità e l'influenza del pensiero di Cesare Balbo e Massimo D'Azeglio.
Marcello Camici