Caro Renato,
condivido il tuo sconforto per il sostanziale insuccesso della Giornata del ricordo, e già osservavo, all’inizio della mia nota: “Il Parlamento italiano ha ritenuto di dover dedicare due giorni diversi alla memoria delle vittime della follia umana introducendo una distinzione che, ben colta, può rivelarsi occasione preziosa”. Il problema sta proprio in quel “ben colta”, che paventa, in qualche modo, un possibile esito deludente nel caso contrario. E proprio di quel pericolo mi è sembrato utile parlare, perché condivido la condanna di Claudio Magris: “È blasfemo, è indice di cattiva coscienza usare le tragedie delle vittime per fini politici attuali”. La storia, che tu richiami, degli Istriani e dei Dalmati è l’autentico ricordo. Non a caso il comma 1 dell’art. 2 della Legge istitutiva della Giornata del ricordo subito si premura di indicare gli Istituti di riferimento: “Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l’Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è concesso un finanziamento ecc.”. E la storia procede sempre con lavoro paziente e accurato, e mai per proclami.
La sintesi che fai nel tuo intervento descrive assai bene i termini e la complessità delle vicende che riguardano la storia di quei territori sempre schiacciati da dinamiche geopolitiche alle quali erano sostanzialmente estranei; ed è verissimo che costituiscono un argomento considerato incredibilmente marginale dagli storici italiani –non tutti, per fortuna; a cominciare dallo stesso Magris-. Dico territori, ma so bene che si tratta di popoli; e che le loro radici affondano in una cultura condivisa con la tradizione che forse è più corretto definire mediterranea che italiana, per il solo fatto che la cultura italiana è definizione vaga e sfuggente. Dici: “La tragedia vera di quegli anni <…>, fu l'eradicazione di un popolo dalle proprie case, dalle proprie terre. Parliamo di circa 350 mila persone costrette a scappare, lasciandosi dietro tutto, compresi molti morti assassinati”. Non dimenticherei neppure l’operazione di sradicamento culturale e perfino linguistico (l’italianizzazione dei cognomi, l’obbligo di parlare e scrivere in italiano) che precedette le tragiche vicende del ’43 lungo l’arco di vent’anni. Ahimè, è la sorte di tutte le terre di “frontiera”, lontane per definizione dai luoghi di gestione del potere politico ed economico: pensa al caso, certo differente, della Sardegna –dove ho incontrato, peraltro, una comunità di Istriani ormai sardissimi, a Fertilia-, o della Corsica. E’ vero: “la storia è fatta di guerre, di invasioni, di dominazioni, di cambiamenti politici, culturali, linguistici. <…> Allora quei morti <…> sono i padri, le madri, i figli di famiglie in fuga dalla propria storia millenaria, che abbandonavano perché volevano continuare a sentirsi italiani”.
Qui ti seguo un po’ meno, anche se le circostanze di allora raccontano proprio quello che tu dici. Sotto il profilo storico l’Italia è una realtà inafferrabile: ne parlavano anche Dante e Petrarca e tantissimi altri uomini d’arte, di cultura, di armi. Ma è sempre stata una cosa diversa nel volgere dei secoli. Fino a oggi. Mi viene in mente che in quel volersi sentire italiani, anche allora quei popoli intendessero di volersi sentire riconosciuti come cittadini e come uomini liberi. Del resto lo dici tu stesso: “In realtà quei disgraziati avevano abbandonato quelle terre non per paura del regime, ma per paura, dopo millenni, di non poter più custodire la proprietà identità culturale. Identità che hanno conservato con fatica, resistendo a millenni di storia sotto diverse dominazioni. I fatti del '900 sono solo l'epilogo”.
Magari fossero stati l’epilogo! Per questo osservavo, della Giornata del ricordo, che “il suo significato più rilevante appartiene piuttosto alla storia dei crimini che tutte le guerre si portano dietro (anche quelle che si sono combattute in quegli stessi luoghi negli anni ’90, anche quelle che oggi si combattono accanto a noi), <…> con gli stessi mezzi e le stesse ‘conseguenze collaterali’ (Siria, Iraq, Terra dei Curdi, Yemen, Libia, Africa in genere, America meridionale, ecc.)”. Per me vedi, non rileva molto che si tratti di italiani o meno. E a questo dovremmo ripensare quando ci imbattiamo nei moltissimi profughi dalle loro terre martoriate, che “sulla strada del loro peregrinare” –come tu dici- trovano, come già gli Istriani e i Dalmati, “morte e disprezzo”, <…> “perché colpevoli di non essersene restati a casa loro”.
Concludi dicendo: “Mi piacerebbe, quando mi chiedono: "Da dove viene la tua famiglia?", non leggere più smarrimento nello sguardo dell'interlocutore alla risposta "Dalla Dalmazia". Sono d’accordo con te, e capisco il tuo profondo coinvolgimento.
Ma lascia che continui a pensare –io che ho ‘come Patria il mondo intero, e come Legge la libertà’- che “forse il modo più giusto di celebrare Memoria e Ricordo sarebbe quello di interrogarci sulle mille occasioni che gli uomini continuano a creare con le guerre in corso in tutto il mondo, e che ci condurranno un giorno, tardivamente, a celebrare nuovi cordogli”.
Con stima e amicizia.
Luigi Totaro