14. Da Zitto e nuota! - I parabordi (parte 2)
Eravamo ormai quasi dentro al porto. Pieraugusto dette un'occhiata panoramica sulla barca per assicurarsi che ciascuno fosse ai propri posti di manovra: le donne erano già tutte con i respingenti in mano, pronte a spostarsi nei punti ove fosse stato necessario un cuscinetto. I respingenti erano tutti molto grossi, enormi, direi. Le donne facevano chiaramente fatica a tenerli sollevati ed erano anche un po' buffe. Liana, in particolare, ne aveva uno tondo, grossissimo, che teneva abbracciato con ambedue le mani: da dove ero io, lei non si vedeva, e sembrava che la palla avesse una testa e due gambe. Poiché non avevamo ancora raggiunto il primo molo, dopo del quale si arrivava al porto vero e proprio, pensai che le donne si sarebbero stancate, a tenere quei pesi in mano, e magari sarebbero state lente e affaticate al momento di entrare in funzione. Io credevo di far bene a dar loro un consiglio, non volevo fare uno scherzo. Non avevo neppure valutato il fatto che,
durante la manovra, non ci si può mettere a gridare tutto quello che passa per la mente: si rischia di far confusione. A mia discolpa devo dire due cose: la prima è che non mi sembrava ancora di essere «durante» la manovra vera e propria (e di questo sono tutt'oggi convinto); la seconda è che, come ho già detto, ero animato da pensieri altruistici.
Temendo, infatti, che le donne si stancassero troppo, volli consigliar loro di appoggiare i parabordi a terra, finché eravamo ancora distanti dalla banchina. Solo che, da prua, senza potermi muovere, col rumore del motore, avevo una sola possibilità di farlo, e cioè urlare con quanto fiato avevo in gola.
E lo feci. Gridai: «Mollate i parabordiii!! »
Si dà il caso che le donne, in quel momento, stessero confabulando tra loro (pare parlassero di un nuovo completo da montagna, il che, secondo me, era anche fuori luogo). Nell'udire quel grido esse si agitarono e lo presero per un ordine perentorio, senza chiedersi affatto chi l'aveva impartito. Potevano far caso, dissi loro, dopo, che Pieraugusto era là, davanti a loro, e Maurizio al timone, e i comandanti erano loro, non io. Ma, come ebbero a rispondermi, gli ordini sono ordini, e si ubbidisce senza discutere, Ariella si precipitò al bordo più vicino della nave, e con gesti rapidi cercò di legare la corda del suo respingente a un'asta che sporgeva. Marisa, che le era corsa a fianco (perché, disse poi, non aveva ancora finito il discorso del completo da montagna), la intralciava nei movimenti. Ariella le disse di andare più in là, ma pare che Marisa non avesse sentito, per via del motore e del fatto che stava ancora parlando. Da quel momento in poi successe il finimondo, e ho potuto ricostruire i fatti solo molto più tardi, interrogando separatamente e a più riprese le interessate.
L'ordine in cui si svolsero i fatti che mandarono Pieraugusto su tutte le furie, fu questo: Ariella, visto che Marisa non si spostava e non ascoltava, decise che sarebbe stata cosa saggia spostarsi lei, e lo fece, correndo dall'altra parte della barca. Marisa da parte sua, non aveva ancora detto il prezzo (parlava sempre della tuta da montagna) e, senza chiedersi minimamente perché Ariella fosse andata via, la seguì. Teneva sempre ben stretto tra le braccia un enorme salsicciotto di plastica alto quanto lei. Liana, che era sulla sponda sinistra e stava legando la sua palla, quando vide piombarsi a fianco Marisa e Ariella, pensò subito che l'altro lato della barca era rimasto sguarnito, e, presa la palla, corse verso quella zona, dimenticandosi che la palla era già stata legata. Il contraccolpo frenò la sua corsa mandandola a gambe levate sul ponte. Lanciò un urlo, alla caduta, e a quel punto anche Marisa e Ariella urlarono (non me ne hanno saputo spiegare il perché, dopo. Ariella pensa «per simpatia»). Lo strattone aveva intanto sciolto la corda non ancora ben legata, ma questo Liana, a onor del vero, non poteva saperlo. Fatto sta che, frastornata e innervosita, Liana, sentendo le amiche urlare, pensò che stessimo per urtare un'altra barca e il suo primo pensiero fu quello di limitare i danni frapponendo il suo pallone fra le due barche. Senza por tempo in mezzo, senza neppure osservare le sue ferite (semmai ce ne fossero state), si tuffò sul pallone e lo scaraventò in mare. Lei dice che, sapendo che era legato, il pallone non doveva finire in mare, ma al suo posto, cioè fuori dal bordo della barca, ma Pieraugusto afferma ancor oggi che anche un cretino avrebbe visto che era sciolto e che, comunque, un respingente si «cala» fuori, non si lancia come per una partita di palla-canestro. Il risultato, comunque, fu che, arrivati al se¬condo molo, con una lunga virata invertimmo la rotta per andare a recuperare il pallone.
Coloro che ci videro dal porto ci dissero poi di aver pensato che noi avessimo deciso di andar via, dopo aver visto com'era fatto il paese.
Gianfranco Panvini