21. Da Zitto e nuota! - Il salvataggio (parte 1)
Giuro che non capisco, né capirò mai, la mentalità dei marittimi. Il vento soffiava ancora molto forte, nel porto sembrava fosse scoppiata un’epidemia di ballo di san Vito che aveva contagiato tutte le barche le quali, impazzite, si esibivano in una danza caotica e schizofrenica. Le raffiche di vento che soffiavano dal mare verso terra investivano tutto e tutti di spruzzi e nebulizzazioni di acqua salata, le raffiche di vento che soffiavano da terra verso il mare, non volendo essere da meno delle loro sorelle che venivano in senso contrario, investivano tutto e tutti di polvere sabbia e sassolini vari che, data la forza che era loro impressa, picchiavano sulle barche con un rumore di mitragliatrice e sulla pelle con il dolore di cento punture di aghi; era abbastanza evidente anche per uno come me che non potrei mai definirmi un marittimo (neppure aspirante o avventizio), era evidente, dicevo, che si era scatenata una vera gara tra raffiche di mare e raffiche di terra, gara nella quale ciascuna delle due fazioni ventose (o meglio, correnti ventose) cercava di sopraffare l’altra, in una rabbiosa lotta che non teneva ovviamente conto di chi si trovava nel mezzo. Cioè noi. Cioè io in particolare, perché gli altri, tutti gli altri, sembravano prestare poca attenzione a questo campionato.
Proprio il giorno prima, in uno stipetto del Cavodurno, avevo trovato un cartoncino religiosamente plastificato affinché non si deteriorasse negli anni, in cui con un lugubre senso di precisione era elencata la scala della forza del vento e i suoi relativi danni sul mare (il dépliant non pronunciava la parola “danni” ma “effetti”). Si andava da “forza 1” (detta “bava di vento”) che, poverina, non riusciva neppure a smuovere le banderuole, per salire a “forza 4” (detto “vento moderato”) che agitava le fronde e sollevava polvere e pezzi di carta formando sul mare “sparse creste biancheggianti”, e su su fino a “forza 7” (“vento forte”) che sollevava cavalloni e mandava spruzzi polverizzati e, inoltre, sibilava tra i fili elettrici, agitava i grossi rami, e rendeva difficile camminare contro vento; infine c’erano delle forze che andavano da “forza 8” in su, sino a “forza 12”, che però non so cosa facessero perché mi ero rifiutato di leggere rimuovendoli poi dalla mente: vagamente avevo visto di sfuggita le parole “burrasca”, “tempesta”, “uragano”, ma poi la vista mi si era annebbiata. La mia simpatia, ovviamente,
andava alla “bava”: la bava di vento era l’ideale, secondo me, e poi mi stimolava un amoroso senso di compassione perché, poveretta, non ce la faceva neppure a muovere le banderuole che, com’è risaputo da tutti, si spostano con grande facilità e sono molto volubili. Quello che non capivo bene, trattandosi di una scala di vento sul mare, era come facessero i venti dal 4 in su ad agitare delle fronde e a smuovere rami: dove li trovavano sul mare le fronde e i rami questi venti? Ma io non sono esperto di mare, come ho detto e ripetuto molte volte.
Fatto sta che il vento cui eravamo sottoposti in quel momento (che non sapevo di preciso in che punto della scala posizionare, ma certo oltre la “forza 7” che avevo letto con tutti i suoi particolari), quel vento aveva la forza di far ballare al nostro Cavodurno, veliero di per sé stabile e pesante quanto mai, una danza nevrotica e sussultoria da incubo, almeno per me. In quelle condizioni una persona normale che fa? Esce dalla barca, se ne va in un bar, in fondo alla stanza più lontana dal mare, beve caffè su caffè, legge giornali su giornali o libri su libri, e aspetta che il vento si sia stufato di soffiare. Oppure, dato che la “forza 7” recita che non si riesce camminare contro vento, uno se ne resta sotto coperta, sdraiato, prende una cannuccia, una lattina di Valium, e succhia fino ad
addormentarsi e stordirsi completamente. Questo fa una persona “normale”. Anche una persona un po’ al di sotto del normale farebbe così. “Io” farei così. Ma i marittimi, evidentemente, non sono normali. Non sapendo come ingannare il tempo in mezzo a quella tempesta, o burrasca, o non so più come definirla, che cosa inventarono? Quale folle idea prese il largo nel loro cervello marittimo? Cervello che, ne sono certo, anziché essere immerso nel liquido cefalo-rachidiano come quello di tutti gli altri esseri umani, è certamente avvolto in acqua di mare.
Continua...
Gianfranco Panvini