25. Da Zitto e nuota! - Il grecale e la partenza
Quella notte il vento riprese a soffiare forte ed ebbi la sensazione che la nostra sosta forzata si dovesse prolungare. La mattina Pieraugusto , Maurizio, il proprietario di un picco¬lo panfilo e Marco tennero un'adunanza mobile, sulla strada. Guardavano il cielo e il percorso delle nubi e tentenna¬vano la testa preoccupati. Quando il conciliabolo finì, Pieraugusto e Maurizio vennero a bordo e ci dettero le notizie:
«Il vento ha girato», disse Maurizio.
«Non è più ponente», disse Pieraugusto.
«Ha girato», disse di nuovo Maurizio.
«Adesso è libeccio», fece Pieraugusto.
Il fatto che il vento avesse girato, in un certo senso mi faceva piacere: a furia di girare, pensai, poteva darsi che si stancasse. Ritenni che fosse un bene, che avesse girato. Invece no, era un male. Siccome non ne capivo il motivo, chiesi spiegazioni:
«Prima era ponente», disse Maurizio.
«Ha girato», disse Pieraugusto .
«Adesso è libeccio», dissi io, meravigliandoli, «e con questo?»
Finalmente furono più chiari:
«Se da ponente è passato a libeccio significa che ha girato. Girato verso sud, intendo. C'è pericolo che conti¬nui a girare».
«E allora?» chiesi. È esasperante come certa gente (e i marittimi in particolare) sia parca di parole. Ritengono che gli altri sappiano esattamente quali siano i loro pensieri e che quindi sia inutile parlare.
«E allora?» ripetei.
Si degnarono di chiarire il mistero:
«Se continua a girare, dopo il libeccio verrà lo sciroc¬co e poi, se non si ferma, il grecale».
«E allora?» cominciavo a essere irritato.
«Questo porto è sicuro, anzi sicurissimo. Con tutti i mari. Eccetto il grecale», disse Pieraugusto .
«Col grecale è un disastro », fece Maurizio.
Sembravano seriamente preoccupati e riuscirono a mettere addosso una buona dose di preoccupazione anche a me. Sembrava che la situazione fosse questa: col grecale non si poteva stare ormeggiati nel porto, perché era pericolosissimo, e non si poteva neppure uscire, perché era ugualmente pericoloso. Supposi che, se una barca fosse stata sorpresa in porto dal grecale, durante la notte, aveva solo la possibilità di camminare e andare sui monti.
«A ogni modo», mi dissero, «per ora il grecale è lontano, perché non è ancora arrivato lo scirocco.»
Fui parzialmente rincuorato da questa affermazione e rasserenato nell'animo dalla garanzia che ci avrebbero avvertito «prima» che il grecale entrasse e facesse una carneficina.
Il giorno successivo arrivò il temuto grecale e si impose una decisione urgente. Dopo lunga discussione, gli ultimi ordini furono: gli uomini sarebbero partiti subito col Cavodurno, rotta Livorno, le donne avrebbero preso la nave di linea che, nel pomeriggio, sarebbe partita da Capraia per Livorno. Saremmo arrivati all'incirca alla stessa ora. Da Livorno avremmo poi proseguito in auto per l'Elba. «Bene», dissi. «Proveremo la navigazione col tempo cattivo e col mare grosso.»
Ci fu un ripensamento generale:
«Tu vai con la nave», mi disse Pieraugusto. «È mio dovere riportare ad Almiro la sua barca, sana e salva.»
Partirono a vele spiegate, con la barca inclinata: sembrava un veliero d'altri tempi, il Cavodurno, veloce, silenzioso e paurosamente bello. Non ne sono sicuro, ma mi sembrò anche di vedere la vela avventizia «scopamare» in funzione.
Guardandolo dalla banchina sentii quasi un pizzico di nostalgia. Presi la macchina fotografica, armai il teleobiettivo e lo immortalai in quella posa. Sarebbe stato bello, in futuro, mostrarla agli amici con orgoglio e dire: «Ecco, quello era il nostro Cavodurno. Là abbiamo vissuto giorni felici e avventure meravigliose». Questo sarebbe stato bello dire, un giorno. Forse non avrei potuto dirlo subito, al ritorno dal viaggio; anzi, sicuramente no. La mia coscienza, lo so per certo, si sarebbe rifiutata di considerare le capate «avventure meravigliose». Dopo un po', però, magari tra qualche anno, quando il tempo avesse sbiadito i ricordi, chissà, quella foto avrebbe potuto rivelarsi preziosa ai miei stessi occhi. E' noto infatti come realtà e immaginazione abbiano dei confini sottili che il tempo tende a rendere meno netti. Forse un giorno io stesso, tra quindici o vent'anni, dopo l'azione levigatrice dei lustri e dell'arte¬riosclerosi, sarei stato convinto che «quello» appena immortalato con la foto era il vero Cavodurno, e allora non avrei avuto rimorsi di coscienza a raccontare a qualche mio nipotino le spericolate avventure vissute a bordo di quel superbo veliero. E avrei mostrato loro quella foto. Mi sono sempre riconosciuto il grande pregio di essere una persona previdente, di pensare al futuro.
Alla fine venne l'ora della partenza anche per noi. Sulla nave il comandante ci invitò a pranzo con lui, nella mensa ufficiali: in navigazione ci disse che avremmo visto, da lì a un momento, centinaia di delfini. Quando infine arrivammo al porto di Livorno commentò:
«Strano, è la prima volta in tanti anni che non si vedono i delfini».
Maurizio e Pieraugusto erano già li, ad attenderci.
Il vento, dissero, aveva spinto la barca a una velocità vertiginosa, e avevano fatto una meravigliosa traversata in sei ore soltanto. Il grecale era stato favorevole tutto il tem¬po e, con le vele tese e gonfie, avevano navigato veloci senza mai accendere il motore. Chiesi notizie sull'inclinazione del ponte, ma non mi risposero.
La traversata con la nave aveva avuto il grosso vantaggio di evitarmi un nuovo passaggio Cavodurno - passerella - rimorchiatore - cargo - barchino, che tanto mi aveva preoccupato durante i giorni di domicilio coatto a Capraia. Mia nonna avrebbe detto: «Non tutto il male vien per nuocere», o anche, «finché c'è vita c'è speranza».
Con l'auto partimmo per l'Elba: giungemmo a casa la sera tardi e ci salutammo, sciogliendo ufficialmente la comitiva. La mattina dopo, in camera, appena desto, scivolai giù dal letto a mo' di serpente e annaspai per aria alla ricerca del bidone dell'acqua. Mia figlia, che era venuta a portarci il caffè a letto, felice del nostro ritorno, mi guardò esterrefatta, pensando che in nottata avessi contratto qualche strana malattia che mi aveva reso storpio. Si tranquillizzò, poi, nei giorni successivi, quando riuscii a riprendere i normali movimenti.
Anche i bozzi che avevo in testa, non più sostituiti da nuovi rincalzi, impallidirono e si sgonfiarono, perdendo il loro aspetto vigoroso. La mia testa, nel giro di una settima¬na, riprese la sua forma naturale che, come ho già avuto modo di dire, a me non dispiace; anche se Ariella, interpellata in proposito, guardandomi attentamente con aria critica, si ostinava a dire che non c'era molta differenza tra «prima» e «dopo».
Sono sicuro però che lo diceva per sfogare su di me il suo malumore per come era andata la sospirata vacanza. E, tutto sommato, la sua frase: «È difficile cambiare il tuo aspetto, anche con qualche ammaccatura sulla fronte», può essere interpretata in tante maniere...
FINE di Zitto e nuota!
Gianfranco Panvini