Dietro il libro di Camici fa capolino il primato della coscienza.
Un tempismo perfetto. La pubblicazione del libro di Marcello Camici ("Diserzione al nemico. Fucilazione d'esempio", Persephone Edizioni) avviene poche settimane prima delle vivaci discussioni sull'obbedienza alla legge e il ruolo della coscienza. Discussioni seguite a decisioni governative con conseguente polarizzazione delle posizioni e imbarbarimento del linguaggio.
Marcello Camici, medico e autore di pubblicazioni legate ai suoi interessi storici, scrive questo romanzo traendo ispirazione da un evento accaduto in Italia nel corso della Prima Guerra mondiale. Il primo luglio 1916, quattro alpini furono "fucilati per esempio" a Cercivento (Udine) per insubordinazione. Avevano infatti protestato di fronte all'ordine di attaccare la vetta del monte Cellon, presidiata dagli austriaci. Ritenevano, sulla base della loro conoscenza del territorio, che il piano di attacco fosse suicida e proponevano un'alternativa (che peraltro venne in seguito applicata rivelandosi vincente). I quattro (Angelo, Basilio, Giovan Battista e Silvio) furono fucilati e gli altri membri del plotone condannati a pene variabili da quattro a quindici anni.
Camici racconta questa storia per ricordare il nonno Mario, che partecipò alla guerra da bersagliere sul Monte Grappa, e per dirci che la tragedia della guerra, di ogni guerra, "appartiene ad ogni essere umano: è senza confini, senza tempo, senza patria. E' una ferita che riguarda e tocca ognuno di noi".
Particolarmente interessanti appaiono le annotazioni nel descrivere psicologie, vissuti, affetti, speranze dei diversi personaggi. Come l'ufficiale che è ligio ai regolamenti e che riversa ogni colpa sulla negligenza dei soldati, segno anche di una rigida educazione familiare. I diversi soldati del luogo che dalle trincee guardano in lontananza le proprie case, dove vivono - e soffrono - genitori, mogli e figli. L'insistenza sul nemico è ossessiva. E incomprensibile per chi, fino allo scoppio della guerra, ha convissuto pacificamente, intessendo anche relazioni amicali. Quello che oggi definiamo contaminazione. Invece, gli ufficiali sospettano chi non dimostra nessun odio verso gli austriaci. L'ordine di partecipare all'azione di attacco (che si considera decisiva) è esso stesso nascosto ai militari perché, scrive Camici, "potrebbe influire negativamente sul morale della compagnia la conoscenza dell'elevato rischio di un'azione militare".
Ogni soldato è prima di tutto un uomo, prima che un numero di matricola è una storia, una testa un cuore due mani.
"Gli ordini non si discutono, si eseguono"..... eppure loro vogliono agire ma non a costo della perdita di tante tantissime vite umane. Ma si scontrano con la cecità e la sordità di chi, perché graduato, crede di non aver bisogno di insegnamenti ma solo di ubbidienza. E considera "vigliacchi e fifoni" coloro che vogliono solamente usare la testa. Sono considerati rivoltosi e, nell'interesse della disciplina e del militarismo, condannati. Paradossalmente il processo militare avviene nella Chiesa del paese, nel luogo dove ci si è nutriti della Vita, dono di Colui che - come ricorda Camici nella citazione che apre il racconto - "umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (lettera di Paolo ai Filippesi 2,8). Il Cristo disobbediente, per la giustizia umana di quel momento, perché obbediente alla verità divina: che siamo tutti figli di uno stesso Padre e siamo tutti fratelli fra di noi. E infatti il parroco don Luigi esclama scandalizzato: "La casa di Dio trasformata in tribunale!". La casa del Giusto, ingiustamente condannato e ucciso, trasformata in luogo di produzione di vittime a causa della loro coscienza, perché occorre "severa repressione e salutare esemplarità". E' questo il punto di partenza che inquina tutto il resto e nulla può aggiungere di nuovo il giuramento dei membri del tribunale "di giudicare con imparzialità e giustizia secondo coscienza e le vigenti leggi". Leggi di guerra e nella guerra, supremazia assoluta della legge sulla coscienza e sul valore della vita (che sono alternativa nella logica del detto "è il sabato/legge per l'uomo e non l'uomo per il sabato"). E durante il processo, l'unico appiglio, l'unico barlume di speranza, è proprio la Vittima appesa alla croce, a cui ci si affida ("Mio Dio, aiutami") e ciò "infonde in Basilio una strana sensazione, quasi di pace". Dall'accusa di diserzione non si salvano neppure con l'intervento del tenente Mazzoni che cerca parole di difesa, invitando chi comanda a non dimenticare che "le pedine della sua scacchiera sono esseri umani, non sacrificabili" e che gli imputati hanno cercato di seguire le proprie conoscenze per proporre un attacco alternativo. Di fronte al plotone di esecuzione, Camici ripresenta il dubbio di coscienza: un giovane carabiniere, alla sua prima esperienza, si chiede perché uccidere un uomo, un fratello, un italiano. E spera che, all'ordine di sparare, il colpo non parta.
La Grande Guerra fu una carneficina. Come ogni guerra. "L'inutile strage", come la definì papa Benedetto XV, contò 650 mila vittime tra i soldati e quasi altrettante vittime civili. La stragrande maggioranza degli oltre 5 milioni di militari arruolati considerava la guerra una vera sciagura. Era invece un grande ideale per cui immolarsi per ufficiali e cittadini della borghesia impregnata degli ideali del Risorgimento. Le conseguenze sociali furono drammatiche: 280 mila orfani e tantissime vedove, 900 mila feriti, di cui 200 mila mutilati permanenti. Per non dire della sorte e delle condizioni dei prigionieri italiani.
L'opzione contro ogni guerra ha prodotto e produce disobbedienza, cioè obiezione di coscienza. La vicenda di Cercivento in un certo senso può avvicinarsi alle scelte più radicali. Ricordo quando nel 1970 uscì il film "Uomini contro" di Francesco Rosi, ispirato ad un romanzo di Emilio Lussu, protagonista Gian Maria Volonté, ufficiale che si ribella agli ordini del comandante. Rosi fu denunciato e processato (e assolto) per vilipendio all'esercito. La proiezione del film fu ostacolata in tutti i modi, anche attraverso minacce agli esercenti dei cinema.
In occasione del centenario della Prima Guerra, in diversi luoghi d'Italia si sono svolte iniziative tendenti a restituire un riconoscimento a quanti sono “morti per mano amica” (i 750 fucilati con sentenze dei Tribunali militari, le centinaia di vittime delle decimazioni e delle esecuzioni sommarie) e riconsiderare, dopo attente verifiche storiche, l’onore militare tributato a comandanti che hanno mandato al massacro i propri soldati o che hanno applicato con spietatezza la giustizia sommaria al fronte. Si tratta di una volontà manifestata in particolar modo da chi contrasta "la ragione" e "le ragioni" della guerra e, più in generale, della violenza. Come scriveva M. Valpiana, presidente del Movimento nonviolento: "Vogliamo ridare onore e dignità ai tanti soldati che furono mandati al massacro, fucilati, e sprezzantemente definiti 'vigliacchi disertori'. Erano invece la meglio gioventù che aveva ben capito che 'il nemico era alle spalle' e cercavano di salvare la vita". Tanto da proporre al sindaco di Verona di rinominare, nel Centenario, piazzale Cadorna in Disertori della prima guerra mondiale.
"Non è una provocazione - concludeva Valpiana -. È un atto di giustizia, seppur tardiva".
Aggiungo che sarebbe sicuramente interessante studiare applicazioni di quanto stiamo dicendo all'attuale scenario nucleare.
Ma, avviandomi alla conclusione e ringraziando Marcello Camici per il suo libro (da proporre come lettura agli studenti o almeno invitare l'autore ad una presentazione in ambito scolastico), desidero riportare alcune frasi di un uomo, un prete, un educatore, che su questi temi ha subito un processo, a seguito della sua solidarietà agli obiettori di coscienza al servizio militare (quando ancora non esisteva la legge - che è del 1972 - che riconosce il diritto all'obiezione di coscienza e istituisce il sevizio civile alternativo a quello militare, considerato altro e adeguato modo per "servire la Patria").
«Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.
La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio (...). E quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede (...).
Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di andare a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci salveremo almeno l'anima». (Lorenzo Milani, Lettera a giudici, 1965)
Nunzio Marotti