«Ecco finalmente le Piane di Perone, sulle quali molti cavalliin libertà errano alla ricerca della tenera erbetta introvabile»; così, nel 1923, scriveva MarioBitossi a ricordo di un’indimenticabile escursione sui monti dell’Elba occidentale.
In effetti, il comprensorio del Monte Perone può dirsi veramente un tutt’uno con i cavalli.Un tempo, quando l’artificiale foresta di pino marittimo (Pinuspinaster) impiantata nel 1935 era là da venire, il Perone (nome che fu già in antico una probabile corruzione di «Serrone», dal latino «serra», ossia «crinale») si presentava come un lunghissimo falsopiano erboso.
Lassù gli abitanti dei paesi più prossimi, come Poggio e Sant’Ilario, portavano cavalli e muli a pascolare.Più in alto, sul crinale del Monte Maòlo (nome che deriva dal latino «maior», ossia «maggiore») i giovani cavalli, tenuti allo stato brado, erano richiamati dagli uomini. Un grido. Un altro grido. E le bestievenivano fatte galoppare verso il cosiddetto «Acchiappacavalli», una lunga strettoia naturale costituita da rocce granitiche.
Come racconta Daniela Soria, quegli uomini «tenevano i cavalli allo stato brado e per prenderli li dirigevano verso quella strettoia». Ma li conducevano anche alla morte. Le bestie più vecchie e malandate, quando ormai non potevano più donare agli uomini la propria ed insostituibile opera, venivano fatte precipitare dalla cosiddetta «Cote dei Cavalli»– o più semplicemente «Cote Cavalli», dall’accusativo latino «cotem», «masso»–ossia una vertiginosa rupe proiettata sul baratro della vallata un tempo chiamata Cavovalle, poco al di sotto dell’ottocentesca «Via del Perone».
Usanze per noi inimmaginabili e inconcepibili, che all’epoca erano dettate dalla durezza di un’esistenza spietata.
Silvestre Ferruzzi