Fra tutte le forme espressive che oggi vengono definite Arte: la pittura astratta, le installazioni, i video, le forme di riciclo creativo, ci sono ancora pochi pittori che, lavorando dal vero, fanno pittura figurativa.
Che cosa ha spinto gli uomini per secoli a voler raffigurare ciò che chiamiamo “vero”, cioè la realtà?
E' interessante pensare che le prime raffigurazioni fatte da uomini primitivi, mi riferisco alle incisioni rupestri di 15.000-10.000 anni avanti Cristo, raffigurano bisonti, cavalli o scene di caccia.
E' come se gli uomini primitivi avessero voluto lasciare una traccia, non solo delle cose costituenti la loro vita, ma anche di ciò che li emozionava.
Pensate alla caccia fatta con pochi mezzi, arco e frecce o lance rudimentali, alla forza e l'energia che scaturivada questa azione.
Chi ha realizzato le incisioni non sapeva che sarebbero state ammirate e oggetto di studio molti millenni dopo, non c'erano committenti e di certo le opere non potevano essere vendute.
- Grotta con incisione vendesi!-
Perché dunque lasciare questa testimonianza; cosa ha spinto gli uomini primitivi a dipingere?
Penso che una risposta molto ovvia stia nell'esigenza dei primi pittori a voler raffigurare la realtà per carpirla, interiorizzarla e concettualizzarla.
C'è anche una spinta a voler condividere la percezione del bello e dell'armonia delle forme, un tentativo di svelare il mistero della vita e la forza della natura esorcizzandole con la rappresentazione.
Non voglio fare un excursus della storia dell'arte dai primitivi ad oggi, mi interessa capire come sia sopravvissuta nell'animo umano l'esigenza di raffigurare il vero.
La pittura figurativa è sempre esistita, ma da un certo periodo ha avuto bisogno quasi di essere giustificata, di fronte ad un quadro figurativo alcuni commentano che puzza di vecchio, senza tener conto di come puzzeranno loro quando saranno vecchi.
Alcuni dicono che dopo l'arte greca nessuno ha inventato più nulla.
La pittura moderna non sarebbe stata possibile senza Caravaggio: lui inventa lo spazio, il vuoto, lascia intenzionalmente grandi aree di tonalità bituminose; il quadro è come una rappresentazione teatrale, il soggetto ci viene incontro come dal fondo di un palcoscenico; la luce sugli incarnati è a volte accecante.
Mi sono sempre chiesta come facesse a far sì che la luce scaturisse direttamente dal quadro, ai musei Capitolini a Roma, San Giovanni Battista che abbraccia un caprone è vicino ad un quadro di Guercino che a confronto sembra senza luminosità, come tutti gli altri quadri che sono nella stessa sala, anche l'“Atlanta e Ippomene di Guido Reni sembra un esercizio anatomico e di stile di uno studente.
Caravaggio comunica in modo nuovo, dirompente, non guarda in faccia il committente, tanto che alcune sue tele saranno rifiutate.
Questa spregiudicatezza sarà la porta che si apre per una più libera espressione pittorica e coloristica.
La pittura è comunicazione senza tramite, un quadro emoziona o dice qualcosa a chi lo guarda o no.
A chi timoroso, si avvicina ad un quadro astratto e dice: “Non ci capisco niente ma sono ignorante” (che, tradotto, vorrebbe dire:” Non mi dice niente, non mi piace, ma sono io in difetto: non lo capisco) bisognerebbe dire:
-No, caro visitatore, non sei tu in difetto: se un quadro non ti comunica nulla, non devi leggere la “Treccani” nella speranza di capirci qualcosa.-
Sono folli quei critici d'arte che per forza vogliono spiegare quanto sia bella e interessante l'opera di un pittore inibendo il pubblico, è sacrosanta la libertà di dire che un'opera non piace.
Davanti al quadro di Repin “Ivan il Terribile e suo figlio Ivan”, dove Ivan il Terribile si rende conto di aver colpito a morte suo figlio, non si può non provare un'emozione intensa o di pietà per il vecchio che con sguardo pieno di orrore e angoscia abbraccia il figlio ormai morente, o di repulsione e stupore per la violenza realistica della rappresentazione pittorica: un qualche immediato sentimento sorge certamente nello spettatore.
Si prova lo stesso davanti ad una tela tagliata di Fontana? Ovviamente no, ci sembra uno scherzo divertente, addirittura originale, si ha la sensazione di una cosa asettica come il taglio del bisturi di un chirurgo.
Ma quando hai visto 10 tele tagliate non ti fermi più neppure ad osservarle dici: “Ah, Fontana!” E passi oltre: non ti dicono più niente, si capisce che è un'operazione commerciale; una tela tagliata è e resta una tela tagliata, rotta.
Tra l'altro l'idea di proporre al pubblico la tela tagliata fu di un mercante d'arte che la vide buttata da una parte nello studio del pittore insieme ad altra spazzatura, che mai avrebbe pensato di esporla, ma il furbo mercante pensò che, aiutato da critici d'arte, si poteva inventare l'idea che le opere di Fontana fossero frutto di una elaborata innovazione stilistica e concettuale facendole passare per l'originale capolavoro di un genio.
Leggetevi il simpatico articolo di Alberto Cottignoli “Lucio Fontana, un imbecille per collezionisti imbecilli”, dove tra l'altro spiega come funziona il mercato dell'arte.
Non voglio minimizzare o screditare tutta la pittura astratta né affermare che quella figurativa è necessariamente pregevole; la sottoscritta è un'ammiratrice di pittori moderni tra cui James Ensor(1869-1949), bravissimo pittore belga singolare e complesso, figurativo alla maniera ottocentesca ma che non risente dell'impressionismo francese; la sua pittura diverrà sempre più espressionista, ironica, astratta e grottesca.
Ensor, pittore delle maschere è sicuramente più originale del tanto acclamato e sopravvalutato Picasso.
Le maschere e gli scheletri sono la rappresentazione del mondo sociale, politico, degli appetiti umani e il loro lato grottesco.
Basti guardare “Due scheletri che si litigano un'aringa salata” o “L'entrata di Cristo a Bruxelles”.
Ensor, conscio della portata innovativa della sua pittura, che ispirerà Paul Klee, George Grosz e altri pittori del '900 cerca dei riconoscimenti che arriveranno tardi, dopo tante delusioni.
Davanti ad una tela di Ensor, qualsiasi persona capisce che è il frutto di un lavoro elaborato nel tempo, che l'artista vuole farci vedere il suo mondo interiore; insomma, capisce l'onestà dell'opera che ci viene presentata senza rimaneggiamenti commerciali.
Del resto prima dell'età moderna un quadro veniva comprato se piaceva; ora, spesso, viene comprato se il pittore è famoso o quotato.
Prima di guardare il quadro si guarda chi l'ha fatto, poco importa se al visitatore di una mostra piacerà di più il quadro di uno sconosciuto rispetto alla crosta di un pittore conosciuto: se avrà il portafoglio giusto comprerà l'illustre crosta.
Da un certo punto in poi non si parlerà più di pittura, ma di Arte. Questa parola magica diventa un calderone dove tutto è possibile, partendo dal giudizio Kantiano che: “E' bello ciò che piace universalmente senza concetto”.
Cioè parliamo di arte ogni volta che una cosa è fatta così bene da farci dimenticare la domanda sul suo significato: questo lo spunto per l'immenso calderone.
Ed ecco che intorno agli anni 50' Pollock viene incensato per aver elaborato quello che in Francia veniva definito “tachisme”, ovvero l'interesse per come il pennello lascia il segno o la macchia sulla tela.
Pollock si inventa “l'action painting” o espressionismo astratto, lascia gocciolare il pennello sulla tela stesa a terra e dice di creare d'istinto i propri quadri.
Una vera manna per i critici d'arte che si rivolgono anche ad un pubblico ignorante che non ha il vissuto, sul suo territorio, della grande tradizione pittorica europea; Pollock, infatti, è americano.
Con una evidente forzatura tirano in ballo il “buddismo zen” ovvero: viva lo spontaneismo del segno, tutto ciò che è spontaneo deve essere per forza bello.
Scusate ma a me viene da pensare che anche la mattina dopo il caffè al bagno accade qualcosa di davvero spontaneo, quindi? Inventiamoci una nuova corrente d'arte: “l'action toilet”!
Fortunatamente non tutti abboccano. Un giornale dell'epoca, il Reynolds News, scrive: “ Questa non è arte, è uno scherzo di cattivo gusto”; secondo un altro, che Pollock sia considerato un genio alla stregua di Tiziano o Velasquez è decisamente esagerato.
Molto più semplicemente, la pittura non è forse tutta un gesto?
Qualcuno ha mai sentito dire che nell'ultimo periodo della sua vita Tiziano Vecellio dipingeva con le dita direttamente sulla tela? Palma il Giovane, suo allievo, racconta che Tiziano usava dare colpi decisi con pennellate massicce di colore e poi lasciava per mesi il quadro girato contro una parete per poi ricoprire quelli strati con nuova pittura e rifinirlo con le dita delle mani con sfregazzi.
Di Rembrandt poi Gerard de Lairesse, che lo conosceva di persona e lo aveva visto dipingere, dice: “L'artista deve dipingere ma non alla maniera di Rembrandt, in cui il colore cola su tutto il quadro e lo imbratta”.
La sposa ebrea di Rembrandt ne è un esempio: nella manica della veste dell'uomo il colore si stacca dalla superficie del quadro in grumi e scaglie, riflettendo la luce, ma non vi è traccia né di pennellate né di spatola; anche la stoffa che ricopre la spalla della donna è dipinta in modo apparentemente caotico: filamenti di colore creano l'effetto della preziosità della stoffa intessuta di fili metallici.
Nel autunno del 1885 Vincent van Gogh visitò con un amico il Rijksmuseum, si fermò davanti la Sposa ebrea e l'amico proseguì, dopo un bel po' di tempo l'amico tornò indietro e trovò van Gogh ancora davanti al quadro, Vincent disse all'amico: “Credimi, e dico sul serio : darei dieci anni di vita per poter rimanere due settimane davanti questo quadro “.
La tecnica pittorica dei lavori degli ultimi anni di Rembrandt è enigmatica, addirittura alcuni studiosi dell'epoca di van Gogh parlano di magia o di fattura inaccessibile; insomma, ancora oggi non si capisce come siano stati fatti, non se ne capisce il processo esecutivo: sembra che si siano autocreati.
Lo stesso van Gogh è, se vogliamo, un pittore gestuale: tutte quelle pennellate che muovono cipressi e fanno roteare la luna e le stelle, sono il bisogno d'espressione della sua anima inquieta.
Guardando i suoi quadri possiamo anche immaginare il gesto con cui sono stati creati, tanto le energiche pennellate sono distinguibili.
Torniamo alla domanda di partenza: come ha fatto a sopravvivere la pittura figurativa fino ad oggi?
Credo che una risposta ovvia sia che l'uomo pensa per immagini e sogna immagini; quindi il figurativo è intrinseco e familiare nell'animo umano.
Un quadro astratto può suscitare svariate sensazioni, ma ha bisogno della spiegazione di un critico dell'arte che ci dica cosa vuol comunicare il pittore: non importa se poi non corrisponde assolutamente a quello che l'artista vorrebbe esprimere.
C'è dunque bisogno di un tramite, di una costruzione dell'intelletto dove qualsiasi sensazione emergente naufraga: vi è mai capitato davanti ad un quadro astratto di provare ad entrare in empatia con il pittore e poi leggere la critica che smonta puntualmente ogni vostra considerazione?
L'esigenza di condividere il bello, il vero e il sentimento che l'artista prova per la percezione di questi spinge ancora alcuni artisti alla pittura figurativa.
Un quadro figurativo è sempre il tentativo di comunicare direttamente attraverso il linguaggio pittorico dove lo spettatore diventa il fruitore e il critico dell'opera stessa.
Ecco perché difendo la pittura figurativa.
Gabriella Volpini
Questo mio scritto vuole offrire degli spunti che siano di stimolo alla conoscenza e all'approfondimento della pittura.