Si inaugura domenica 7 aprile la mostra di Francesco Giannuzzi “KIKKO” . L’appuntamento è alle ore 18.00 alla sala della Gran Guardia a Portoferraio.
Una prima assoluta del giovane artista che vive e lavora all’Elba e che fino ad oggi ha sempre esitato a mostrarsi perché le sue opere sono espressione delle sue piu intime sensazioni e lasciano trapelare attraverso l’uso di colori vivaci e forme inaspettate i dubbi e le paure di un’intera generazione. Una generazione segnata dalla precarietà assoluta.
Articolo sulla mostra dalla giornalista Terry Marocco, Panorama:
L’arte ha sempre oscillato tra normalità e follia. Borderline, confine sottile, impalpabile, terra di frontiera che lambisce i capolavori dei grandi. Così lo sguardo cerchiato di verde e gli occhi persi degli autoritratti di Vincent van Gogh o gli incubi notturni popolati di mostri, pipistrelli e creature evanescenti di Francisco Goya. Borderline, il genio bruciato troppo in fretta di Jean Michel Basquiat e il genio sublime di Francis Bacon, con i suoi papi urlanti, dalle bocche spalancate, fameliche, annegate nel colore. Bacon scriveva: «Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito». Le sue figure deformate provano angoscia e solitudine, corpi spezzati, irriconoscibili. Per andare a fondo del dolore c’è bisogno di astrazione. E così il tornare a un’arte che ricorda i disegni infantili è un viaggio all’indietro al proprio inizio, alle radici della sofferenza.
Nei lavori di Kikko Giannuzzi questo percorso diventa evidente, e nel suo tratto sottile, elegante c’è un ritorno a un disegno infantile, che ricorda gli incubi dei bambini.
Si sente la lezione dei grandi, reinterpretata con una semplicità che diventa inquietudine. Oscilla tra un’ansia sottile e la rappresentazione di una normalità per nulla rassicurante: come la casa annegata in un cielo blu China. Blu è anche il diavolo, rappresentato come un oscuro uccello o forse come uno dei Gormiti. Blu è l’abito di “Papa Razzinger”, quasi impiccato nelle sue vesti imponenti. Il colore blu diventa filo conduttore della mostra, blu ancora è l’autostrada del sole e nel blu si spegne il fuoco.
Il poetico “Io e te” raffigura un dialogo tra figure che non si toccano, ma sono molto vicine, e quasi sorridenti.
Una figura rossa in “Senza Titolo” appare come una creatura marina, ma di un mare affatto tranquillo.
Giannuzzi non cerca di rassicurarci, nei suoi disegni traccia i nostri sogni inquieti, le paure che galleggiano dentro l’anima. E che spesso restano lì, stagnanti, come le angosce e i piccoli uomini neri disegnati da Carlo Zinelli, campione dell’Art Brut, l’arte grezza, l’arte nata nei manicomi.
Jean Dubuffet è il primo nel 1948 a dare dignità a questi artisti dimenticati, oggi valutati come uno degli esempi più alti e interessanti, che maggiormente hanno influenzato gran parte dell’arte ufficiale, da Paul Klee a Max Ernst.
Nelle opere di Giannuzzi si percepisce la stessa forza, la stessa capacità di essere visionari: nella regina denudata che si ispira alle donne di Picasso, come in Furio, così immobile che pare bloccato da una camicia di forza. Fragili e ipnotici sono i suoi disegni a penna, che ricordano labirinti, dai quali non si riesce ad uscire.
A guardarli ci si perde, ritrovandoci prigionieri delle nostre paure.
Illusi, perduti come in quel vecchio videogioco, Pac Man, dove creaturine si rincorrono per divorarsi. O come nella celebre scena di Shining di Stanley Kubrick, dove il labirinto che tiene prigionieri la donna e il bambino è la stessa proiezione mentale della pazzia di Jack Torrance-Nicholson.
L’arte di Giannuzzi ci colpisce per coraggio e forza, dolore e alienazione, uniti a una semplicità disarmante. E ci racconta le nostre stesse paure. Ci mette davanti a uno specchio doloroso. Guardarci attraverso, può terrorizzare.
Terry Marocco
Scrive di lui Fausto Falcone:
Quello che guardo tra le mani è un gesto semplice che non diventa povero. Sono i colori primari usati puri, un segno che connota dà vertigine, spaura.
La storia di Chicco, che viene il giorno a me infinite volte ed è la voce
Del disagio,a volte
Dell’attesa altre
Dell’angoscia o della gioia, ma meno di frequente.
E se la voce è segno, lo è anche il tratto.
Viene col tema della morte, del destino e poi dell’arte. L’arte necessaria e, se a volte lancia la pietra, nasconde la mano senza vergogna, perché l’arte è pure questo, il coraggio di una protesi con la natura di una lente, col suo fuoco sul cuore.
L’arte di Francesco tanto designa, quanto mette a soq-quadro.
È una radiografia la sua, da primo della lista.
È l’arte di una nomenclatura coll’obiettivo di una soddisfatta monotonia, cosa che Chicco esclude, mentre la sua luce ci parla di un duraturo interno giorno, sfavillante, che quasi porterebbe all’autocombustione dell’ opera, dal fuoco dei quadri al sole che brucia lungo la salita del Falcone.
Sono un po’ come i cani a volte i quadri e ai migliori tra loro manca solo la parola… e parlo dei discorsi fatti al telefono, ma ora, la parola, sia data all’arte