Le capre selvatiche dell’isola di Montecristo, appartenenti alla specie «Capra aegagrus», popolano quella sperduta massa granitica – secondo le testimonianze documentarie che abbiamo – almeno dal Cinquecento. Chi ne parla è l’elbano Apollonio Pavolini nella sua «Relazione dell’isola di Monte Cristo», conservata nell’Archivio segreto Vaticano: «Vi sono quantità di capre piccine di pelo raso» che in gran numero, allora come oggi, vagavano in ogni angolo dell’isola.
A circa un secolo e mezzo di distanza (1701), Giuseppe Vincenzo Marascia (nell’opera agiografica «De’ due Santi Mamiliani arcivescovi e cittadini di Palermo») scrisse invece che le capre di Montecristo venivano attivamente cacciate, e a tal proposito aggiunse un episodio venatorio culminato nel miracolo dovuto alla famosa acqua sorgiva della Grotta del Santo, luogo in cui visse e morì San Mamiliano nel V secolo: «Queste [grotte] sono di continuo habitate da capre selvaggie che infinite ne sono nell’isola (…). Un giovane, tirando con un moschetto ad una capra, si crepò e, distaccogli quasi che affatto la mano dal braccio, pregò i compagni che li bagnassero la mano di quell’acqua; lo fecero, lavandogli anco il braccio tutto abbruggiato, e immediatamente li cessò il dolore e la mano si riunì».
Nel 1788 Agostino Cesaretti («Istoria del Principato di Piombino») scrisse che a Montecristo «non vi sono altro che capre salvatiche, alla caccia delle quali, nella primavera avanzata, vanno i cacciatori dell’isola dell’Elba, e qualche volta ancora i cacciatori di terraferma».
Silvestre Ferruzzi