Sabato 25 Maggio, presso la sala della Gran Guardia, Ultimo Appuntamento del Maggio Napoleonico Portoferraiese con la conferenza del Professor Tiziano Arrigoni dal titolo " Il Giardiniere e l'imperatore", a cura del Centro Nazionale di Studi Napoleonici.
Di seguito, l'intervento integrale del Prof. Vanagolli, relativo all'evento dell' 11 Maggio, nell'ambito della stessa manifestazione
Lazzaro Taddei Castelli e il suo Ragguaglio sul soggiorno di Napoleone all’Elba al Principe di Piombino*
Quando Napoleone arrivò all’Elba trovò chi lo osannava e chi avrebbe preferito saperlo da un’altra parte, magari in Francia, sul trono, ma da un’altra parte.
Tra i meno entusiasti importanti, quelli più in vista erano due, uno francese e uno italiano: André Pons, più noto come Pons de l’Hérault, e Lazzaro Taddei Castelli.
Del Pons tracciai un profilo l’anno scorso, proprio in questa sala, presentando una recente edizione dei suoi Souvenirs et anecdotes de l’Ile d’Elbe. Mi limiterò a ricordare, ora, che aveva combattuto con Napoleone nella Francia meridionale. Poi, conseguente democratico, si era opposto al colpo di stato del 18 brumaio e dopo anni piuttosto tribolati, era approdato nella nostra isola, a dirigere le miniere di ferro per conto della Legion d’Onore. Qui aveva vissuto giorni opachi, ma operosi e tranquilli. La sconfitta di Napoleone a Lipsia lo aveva messo davanti a due fantasmi, entrambi paurosi: il ritorno all’Elba delle antiche sovranità, la fiorentina, la napoletana e la piombinese, che sicuramente gli avrebbero rimproverato il suo passato giacobino, e il passaggio dell’isola alla Francia di Luigi XVIII, che gli avrebbe rinfacciato la stessa cosa. Ma a materializzarsi era stato un terzo fantasma, assolutamente inaspettato, Napoleone sovrano dell’Elba: che lo aveva spaventato oltre ogni misura.
Del Taddei Castelli parliamo stasera. Si tratta, per i più, di un perfetto sconosciuto. Ma che ebbe un ruolo di primissimo piano all’Elba, e non solo, tra la seconda metà del Settecento e i primi anni dell’Ottocento. Per lui l’arrivo di Napoleone rappresentò la negazione del ritorno dei principi di Piombino, i Ludovisi Buoncompagni, e dell’ancièn régime, che desiderava ardentemente.
Tengo collegati per un altro istante questi due personaggi per dire che in essi Napoleone trovò l’opposizione che aveva accompagnato tutta la sua carriera politica, quella giacobina e quella legittimista. Forse si era illuso che, almeno all’Elba, non avrebbe dovuto farci i conti e invece… Però trovò anche altrettanti biografi, molto attenti, le cui testimonianze, ispirate a punti di vista diversi, si integrano e ci permettono di penetrare meglio la realtà dell’isola, stato indipendente per la prima e unica volta nella sua storia, tra il 1814 e il 1815.
Dunque, dicevamo: Lazzaro Taddei Castelli. Nacque a Rio, nel 1744. A partire dal 1760 e fino al 1764 fu cancelliere supplente del governatore di Rio; nel 1765 diventò segretario e cancelliere del governatore generale dello stato; dal 1766 al 1769 fu cancelliere effettivo del governatore di Rio; nel 1770, a ventisei anni, diventò governatore di Capoliveri.
Tra tutti questi incarichi, trovò il tempo di studiare e nel 1772 si laureò a Pisa in utroque iure. Dopo essere tornato cancelliere del governatore di Rio dal 1773 al 1774, fu nominato governatore di Rio, carica che tenne dal 1775 al 1778. Quindi divenne governatore di Marciana e Poggio e dal 1781 al 1786 tornò con la stessa carica a Rio.
Nel 1787 fu chiamato dal principe alla dignità di pro-governatore generale dello stato e, tornato governatore di Rio nel 1788, divenne governatore generale dello stato nel 1799. Successivamente fu governatore di Rio fino al 1802, anno in cui l’Elba diventò francese.
Oltre a tutto ciò, fece parte di una commissione per la definizione dei confini Piombino-Toscana all’Elba, riordinò gli archivi comunali di Piombino, Suvereto e Scarlino, fu membro di una Congregazione dei boschi dello stato e consultore delle giudicature civili e penali di Piombino, Buriano, Suvereto e Scarlino.
La sua prestigiosa carriera si sarebbe conclusa serenamente, tra attestati di rispetto e di considerazione – tra i quali ricordo, nel 1787, la cessione da parte del principe Antonio Ludovisi Buoncompagni del patronato della chiesa dei SS. Giacomo e Quirico di Rio – se l’Elba non fosse stata investita dal terremoto che agitò l’Europa a partire dal 1789 fino al 1815.
I primi segnali arrivarono nel 1794, con lo sbarco a Portoferraio di centinaia di realisti fuggiti da Tolone; poi si riaffacciarono nel 1796, quando truppe inglesi occuparono l’isola come contromossa all’occupazione francese di Livorno.
Quindi, nel 1799, arrivò una scossa forte: sotto forma di un contingente di soldati transalpini, contro i quali rivolsero presto le armi i napoletani della piazza borbonica di Longone e bande di guerriglieri elbani. Per i combattimenti che si accesero tra le opposte formazioni, come per gli eventi politici che li accompagnarono, rimando ai lavori di Giuseppe Ninci (1815) e di Vincenzo Mellini (1890), ispirati a convinzioni ideologiche diverse, l’una giacobineggiante e l’altra “nazionale”, corrente nel secondo Ottocento: entrambe meritevoli di rispetto.
Il Taddei Castelli nel 1796 aveva dovuto regolare i rapporti non facili tra la popolazione riese e i militari inglesi, mentre vedeva crescere anche a Rio la malapianta, dal suo punto di vista, dell’opinione giacobina. Ma fu nel 1799 che il terremoto lo ferì nel vivo della carne. Il 5 aprile 1799 un gruppo di soldati e di forzati fuoriuscito da Longone e penetrato in Rio sparò sulla gente raccolta davanti alla parrocchiale e gli uccise il più giovane dei suoi cinque figli, Leone, di diciotto anni.
Dal 1799 in avanti gli eventi si successero convulsi: tornarono i francesi nel 1801 e fino al 1802 fu di nuovo guerra. Portoferraio, rimasta fedele ai Lorena, subì un memorabile assedio. Infine l’Elba, come abbiamo già visto, diventò francese. E qui, come aveva difeso più volte in passato i diritti del Principato contro la Corona di Napoli, li difese contro la Francia che, a suo giudizio, fondava la sua sovranità sull’isola su un trattato, quello di Firenze, non valido. Si inimicò, così, le massime autorità francesi locali, civili e militari, che lo esclusero da ogni incarico. E quando, nel 1805 e nel 1808, in un clima di generale normalizzazione, fu nominato rispettivamente giudice civile e giudice penale, rifiutò le nomine. Per questa sua fermezza patì l’intera famiglia: un figlio, Sabba, parroco, fu privato dei benefici ecclesiastici; un altro, Odoardo, capitano del battaglione franco, fu retrocesso a tenente. E insorsero anche seri problemi economici.
Colgo l’occasione per accennare al fatto che Napoleone e la Francia furono motivo di contraddizione e di lacerazione all’interno del notabilato elbano, dei Vantini, dei Bernotti, dei Senno, dei Manganaro, dei Mellini: i membri più giovani del quale furono di norma affascinati dal grande còrso. Ciò fu vero anche per i Taddei Castelli: oltre a Odoardo, fu militare anche Giovanni, suo fratello, che morì, capitano dell’Armée, combattendo in Spagna, tra Valladolid e Burgos, l’11 luglio 1811. Altri due figli di Lazzaro, Sabba, che abbiamo già incontrato, e Lorenzo, anche lui ecclesiastico, furono invece sicuramente antifrancesi.
L’opposizione di Lazzaro alla Francia si espresse non solo con il rifiuto a collaborare, ma in ogni altro modo possibile, a parte l’uso delle armi.
Uno di questi fu la poesia. Di un Lazzaro verseggiatore, abbiamo prove a partire dal 1769. Ma la sua produzione si fece intensa a partire dalla Rivoluzione in poi, fino almeno al 1814. Ce ne restano venti sonetti. Ne propongo due: uno di condanna della Rivoluzione, che recita:
“O delle Gallie Nazion grand’ e forte/o di Europa ornamento, o gran splendore,/qual delirio di mente, ahi! qual orrore/in ria cangiò la tua felice sorte!//La tua Eguaglianza e Libertate assorte/veggo di cecità nel cupo orrore,/e te spogliata del tuo prisco onore/tosto che i Regi tuoi traesti a morte.//Se i Culti e i Troni a rovesciar le vie/tutte tentasti in van, lungi dal Vero/le tue massime andranno infami e rie.//Dubbia ancor siei dell’usurpato Impero,/e altra gloria non hai di tue follie,/che aver messo sossopra il mondo intero”;
e uno rivolto a stigmatizzare l’ambizione di Napoleone, che è il seguente:
“Poich’ebbe Napoleon tolto l’impero/delle Gallie, d’Italia e dell’Olanda,/sconvolta l’Alemagna e poi nefanda/strage recata al Lusitano e Ibero,//quieto non son, dicea l’atro Guerriero,/se d’ambo i poli, l’una e l’altra banda,/non domino con gloria memoranda,/se d’Europa non ho l’arbitrio intiero.//Vo di Pollonia a usurpar’ogni ragione,/a mettere le Russie a ferro e a fuoco,/ed a por tutto il Nord in combustione.//Della Corsica, è ver, oscuro loco/i natali mi diè; la mia ambizione/a soddisfare tutto il mondo è poco”.
Ricordo che il nome di Napoleone fece volare, all’Elba, parecchi versi: se il Taddei Castelli lo metteva sotto i piedi, i bardi della loggia massonica des Amis de l’Honneur Français à l’Orient de Porto-Ferrajo lo innalzavano, ad esempio in occasione della vittoria di Austerlitz:
“[…] il faut chanter ce jour de fete/pour célébrer Napoléon/on doit emboucher la trompette./Il fatigue par ses exploits/tous le porte-voix de la gloire;/et pour le suivre cette fois,/il fait galopper la Victoire”.
E un anonimo dedicava al suo arrivo sull’isola una Canzonetta piena di enfasi e di retorica:
“Io ti saluto d’Ilvia/almo terren fecondo,/il Vincitor del mondo/or nel tuo grembo sta./Se ancor del Franco Imperio/non ha lo scettro in mano,/più padre che sovrano,/il nostro ben farà”.
Ed eccoci al punto: l’arrivo di Napoleone.
All’avvenimento il Taddei Castelli dedicò un sonetto in cui dipingeva il grande còrso come meritevole di stare qui, non come sovrano, ma ad metalla, come schiavo incatenato nelle miniere:
“Elba, lo so, che fin dai primi tempi/le sacre leggi del Romano Impero/condannando ad metalla improbi ed empj,/fosti un servaggio lor duro e severo.//In progresso seguendo i pravi esempi,/ciascun de’ dominanti aprì ’l sentiero/a’ tuoi presidj, ove ognor tu adempj/dell’armi e di giustizia il ministero.//Guardi quindi ne’ ferri e con rigore,/e ai pubblici lavori confinato,/chi di delitto e pena è debitore.//Non fia che a dominar sia comportato/e che in vece di servo sia signore/del mondo il malfattor più scellerato”.
Questo fu il benvenuto. E qui devo tornare per un momento a Pons, per dire che se, alla fine, dopo scontri epici, diventò un seguace tra i più fedeli del deposto imperatore, il Nostro non si sognò di cambiare idea. E sì che Napoleone esordì nei suoi confronti con un gesto che avrebbe ammorbidito chiunque: andò a trovarlo a casa sua. Fu oggettivamente un fatto straordinario. L’antico governatore soggiornava allora alla Chiusa, una valle tra Rio e Rio Marina, in un bel casale circondato da ampi coltivi. Era il 5 maggio e Napoleone era sbarcato solo da un giorno. Nulla lo obbligava a quel gesto di deferenza, che sicuramente aveva anche un significato politico, ma che era pur sempre uno scendere dal piedistallo per mettersi all’altezza degli altri.
L’incontro, che riprenderemo più in là, ci viene descritto nel Ragguaglio, di cui è ora che cominci a parlare.
Si tratta, sul principio, di una cosa strutturata a campiture abbastanza larghe per diventare, poi, un vero e proprio giornaliero. Essa è da considerarsi organica a un progetto informativo, fatto anche di lettere ecc., a favore dell’ex sovrano di Piombino, il principe Luigi Ludovisi Buoncompagni, allora a Roma, e parallelo ad un’iniziativa giuridica e diplomatica portata avanti dallo stesso Taddei Castelli ai massimi livelli europei, sto parlando del Congresso di Vienna, intesa a far ottenere al principe un congruo compenso per la perdita dello stato; iniziativa, sia detto per inciso, che andò totalmente a buon fine.
Si può affermare che, all’inizio, il Nostro si limiti a seguire i passi di Napoleone: da Portoferraio a Rio Marina a Rio Alto a Longone a Marciana a Campo a Cavo a Pianosa a Palmaiola, senza prodursi in commenti particolari. Salvo in occasione dell’incontro, che è troppo ravvicinato per accennarvi soltanto.
Riviviamolo attraverso le parole di Lazzaro:
“[Napoleone] passò dal mio Casin di campagna alla Chiusa. Dopo aver ricevuto i complimenti miei e di mia consorte, interrogò replicatamente sulle avventure di mia famiglia e ne mostrò qualche sensibilità. Entrato nell’abitazione e passato meco nel mio studiolo, si pose a sedere e mi replicò più volte che mi accomodassi e da se stesso chiuse la porta, vedendo intervenuta in sala ed in camera una moltitudine di persone le più rispettabili del paese e, come ho detto, il Generale Dalesme, Inglesi e Francesi. Si trattenne meco alquanto in discorso sulle qualità della mia campagna, che aveva sentito dire godere di un’aria perfetta, con acque salubri e produzione di buoni vini, quali volle poi gustare, e così tutto il seguito suo. Mentre qui si trattenne fra la gente accorsa, potei rilevare che, sebbene sia facile ad interrogare e prender dei lumi, nulla però risolve e sembra solamente proclive a secondar le richieste; è molto prono al moto ed al favore, troppo in lui naturale”.
Si noterà come esso sia reso senza alcun compiacimento; semmai il sentimento che vi domina è una meraviglia impossibile a nascondersi: Napoleone “da se stesso chiuse la porta” e “si pose a sedere e mi replicò più volte che mi accomodassi”.
E’ da rilevare come Napoleone, lasciando tutti gli altri fuori, compresi i suoi generali, intese sottolineare il valore dell’incontro: il che, in tempi di banalizzanti streaming, credo debba essere rilevato.
Il commento riguarda il modo dell’imperatore di porsi davanti agli altri: gli si rimprovera di interrogare molto e di promettere altrettanto, ma con l’aria di chi non ha grandi intenzioni di mantenere; il favore è “troppo in lui naturale”. Dunque bisogna diffidarne.
In un incontro successivo, avvenuto il 1° giugno, a Rio, in casa del maire Gualandi, il Taddei Castelli si confermò in quello che non aveva espresso, ma che aveva rilevato, il 5 maggio, alla Chiusa. Vale la pena di ascoltarlo ancora una volta:
“[Napoleone] venne a Rio a riposarsi in casa del Maire Gualandi, ove lo scrivente credé necessario e conveniente di andarlo ad inchinare, essendoli debitore della visita fattali nella sua campagna della Chiusa […]. Entrando in casa del Maire, il Maresciallo [Bertrand] volle accompagnarlo nella sala, malgrado la ricusazione replicatamente fattali e passò subito l’avviso a Napoleone, che sedeva nell’ultima stanza. Tornò in sala al momento, il detto Maresciallo, e lasciando indietro il numeroso seguito ivi adunato,lo introdusse d’avanti a lui, chiudendo la porta ed annunziando alla sala che nessuno passasse […] Anche in tale incontro rilevò lo spirito fiero ed il naturale intollerante e vario in ogni tratto”.
L’efficacia della descrizione di questi incontri ravvicinati è straordinaria. Come è scolpita, nel Ragguaglio, la registrazione dei dialoghi o delle frasi pronunciate. Si tratta sempre di poche parole, ma che rendono tutta intera la sostanza di una situazione. Per trovarne un esempio, possiamo restare al 1° giugno, spostandoci, però da Rio a Rio Marina e retrocedendo di qualche ora. Siamo in un altro interno: la sede della direzione delle miniere, che ancora chiamano Il Burò.
Napoleone è a tu per tu con Pons: il clima è acceso. Napoleone reclama la cassa delle miniere e Pons gliela rifiuta. Non solo, dice di essere in credito di 30.000 franchi. E il suo contabile Bobilier squaderna registri zeppi di cifre. Ma Napoleone non sente ragioni e ripete, rivolgendosi a Odoardo Taddei Castelli, che ha accanto: “Pons si è fatto ben ricco”. E poi, rivolto a Bobilier, ma sempre mirando a Pons: “Andasse a Parigi a farsi pagare. L’Isola d’Elba mi è stata data franca e libera”.
Ma torniamo allo sviluppo del Ragguaglio, da cronaca a commento o riflessione politica. Colpisce, tra gli altri, questo brano:
“Suppone ognuno, generalmente, che un Guerriero sì animoso non possa vedersi ristretto in questo scoglio, né che perseveri di mente sana […] dorme pochissimo, parte sta applicato a scrivere e parte in moto ed insomma fa conoscersi per uno spirito agitatissimo, inquieto ed instabile”.
Questo clima di sospesa tensione viene ribadito poco più avanti:
“Riflettendo a ciò che si dice e si fa, sembra che nulla vi sia di positivo, di assoluto e determinato; molto e molto si promette, si annunzia e vocifera, ma nulla si risolve più e diversamente da quello che si trova da prima introdotto ed esistente”.
Poi, dopo aver elencato l’inaudito attivismo sul territorio sottolineato da tutti i biografi dell’imperatore, il TC non può che farsi delle domande. E scrive:
“Riflessioni: tutte queste operazioni, oltre i motivi di allarme che somministrano agli Stati e Provincie vicine e lontane, fan conoscere l’animo di permanenza e di acquistare possessioni nell’isola, non meno che di volerle difendere colla forza e coll’armi. Una dimora quieta e pacifica, un soggiorno non sospetto, una cessione temporaria ed un possesso vitalizio non si accordano con tante e sì sorprendenti novità”.
Intanto ha avuto inizio il Congresso di Vienna. E qui devo puntualizzare, per chi non lo sapesse o non lo ricordasse, che Napoleone era all’Elba in virtù del trattato di Fontainebleau, del 6 aprile, con il quale gli era stato riconosciuto il dominio dell’Elba in cambio della sua abdicazione. Ma era a Vienna che sarebbe stata decisa la sua sorte definitiva. E questo non c’era chi non lo pensasse. E lo pensava lo stesso Napoleone. E il Taddei Castelli è puntuale a registrare il clima. Scrive:
“La voce comune è stata ed è, da qualche tempo, che Napoleone, attese le alte parentele colle case sovrane della Germania ed a contemplazione del figlio nato dall’Imperatrice Maria Luisa, debb’avere altro destino di maggior grandezza, senza esser limitato e ristretto in un’isola com’è questa”.
E, alla fine di dicembre, scrive ancora: “Persevera sempre la voce comune, proveniente e confermata da molte parti della Toscana, che Napoleone debba partir dall’isola” e annota, contemporaneamente che si coglie “un gran moto in tutti gli altri del Ministero e Governo”, mentre arrivano all’Elba persone ed è un via vai dal porto ai Mulini e viceversa.
Poi, quando vengono scoperti emissari di Napoleone mandati in Toscana e in Corsica a reclutare soldati, torna con forza su un auspicio già fatto a settembre. Aveva scritto allora, informato sui tentativi di Napoleone di avere notizie dall’estero:
“Siffatte misure, come molto sospette ed allarmanti, somministrar dovrebbero agli speculatori politici fondati timori, se venissero ben ponderate dalla prudenza dei Principi, che possono aver parte ed interesse alla quiete degli Stati vicini ed adottar l’oggetto di un allontanamento”.
E scrive ora:
“Questo attentato, unito alla fortificazioni fatte cominciare a Pianosa e rinforzate in Portoferrajo, dovrebbero far aprire gli occhi alle Potenze alleate per allontanare il più possibile un uomo naturalmente intraprendente, sdegnato e pericoloso”.
Si ricorderà che a Vienna si dicevano le stesse cose.
Lazzaro osserva tutto, nel suo disegno di rendere un quadro il più possibile completo della situazione. E ci riesce, forse anche con il contributo di informatori che non siano i figli o gli amici, ma di spie vere e proprie. D’altro canto, com’è noto, ne avevano tutti, in quel momento, sull’isola.
Dicevo che Lazzaro osserva ogni cosa e di ogni cosa prende nota: delle attività economiche, dell’ordine pubblico, dei lavori che vengono fatti, all’Elba e a Pianosa. Ma quello che attira di più la sua attenzione sono gli arrivi. Questi furono moltissimi, migliaia, tra cui anche quello di Maria Walewska, il più famoso. E registra che quei turisti ante litteram sono in larga parte partigiani di Napoleone. E poi ci sono gli inglesi, che lo intrigano, perché, spesso degli alti ufficiali e degli aristocratici, si rapportano direttamente con Napoleone, gli portano dispacci, lettere e forse ne ricevono. E infine ci sono i bastimenti, che gli risulta portino denaro, oro, argento, da Civitavecchia, da Napoli.
Gli eventi stanno maturando e Lazzaro, acuto com’è, non tralascia di annotare che ormai “Sono rare in Portoferrajo le udienze che si accordano da Napoleone” e che, “dopo il ricevimento di alcuni plichi, tanto Napoleone che il Maresciallo Bertrand stanno continuamente applicati sulla carta geografica e specialmente si fanno delle osservazioni sulle isole della Grecia e Sardegna”.
Una scena di rara efficacia, cui si affianca un impagabile ritrattino dell’imperatore, che “nel discorso, sembra che non concluda: si volta in qua ed in là, dopo aver sentito, mostrando alienazione di mente e fischiando di poco in poco”; si tratta di una testimonianza, lasciata intatta nella sua veridicità naive con la sensibilità di uno scrittore, raccolta con ogni probabilità dai domestici dell’ex imperatore, cui evidentemente mancava la discrezione, ma non lo spirito di osservazione. Che si esercitava anche su Bertrand, con una nota di partecipazione umana, che registriamo volentieri: il maresciallo, “dopo la morte di un suo piccolo figlio, si vuole caduto in una specie di apatia disprezzo di qualunque cosa, benché importante”.
Napoleone lasciò l’Elba il 26 febbraio 1815. All’addio Lazzaro dedica brani mirabili, nella loro consueta brevità. Ma, concludendo questa presentazione, quello che foglio proporvi, perché rispecchia tutto il gusto dell’istantanea, del flash del Nostro, rimanda a due giorni più tardi, al 28, quando il commissario inglese Campbell, tornato da Livorno, si rese protagonista di questo quadretto:
“Il Colonnello Campbell entrò nella Piazza e domandò subito di Napoleone. Gli fu risposto:
-“E’ partito”.
-“Per dove?”.
Fu aggiunto:
-“Non si sa”.
Andò a fare le medesime interrogazioni alla Madre e al Lapi e si portò la stessa risposta. Si vide, allora, il detto Colonnello, per rabbia, divorar co’ denti un fazzoletto bianco che aveva in mano, darsi colpi nel capo, pieno di collera e ripartire immediatamente per Livorno”.
Gianfranco Vanagolli