La sera di domenica 29 luglio 1900 Umberto I re d'Italia era l'ospite d'onore di un concorso ginnico a Monza. Al termine di esso, alle 22,30, salì sulla carrozza per far ritorno a casa. Mentre il re salutava la folla, da appena tre metri di distanza, l'anarchico pratese Gaetano Bresci fece partire tre colpi di rivoltella Harrington & Richardson, che aveva acquistato a Paterson. Andarono tutti a segno: il sovrano, inizialmente soccorso dal generale Avogadro di Quinto, morì poco dopo. I vicini alla scena si avventarono addosso all'omicida, e solo l'intervento dei carabinieri impedì che fosse linciato.
Il regicidio scatenò un'ondata emozionale in tutta Italia, ma anche una pesantissima repressione. Furono passate al vaglio tutte le conoscenze e la vita dell'assassino: pochissimi furono amici e parenti che si salvarono dall'arresto. Non solo coloro che avevano intrecciato i destini di Bresci furono tratti in manette: la repressione colpì gli anarchici in quanto tali e tutti coloro che mostrarono aperta soddisfazione per la morte del re. Fu persino applicato il reato di apologia di regicidio. Anche alcuni giornali moderati condannarono l'eccessivo zelo dell'autorità.
Tra i perseguitati finì il capoliverese Nicola Quintavalle, fermato nelle quarantott'ore successive all'attentato. In seguito alla perquisizione della sua abitazione di Capoliveri, tra il 31 luglio e il 1° agosto, Nicola fu trovato in possesso di un carteggio epistolare con l'amico Gaetano, giudicato compromettente.
Prima di trascorrere con Quintavalle i drammatici momenti del suo arresto, vediamo come l'Elba visse quei giorni. Il Corriere dell'Elba, come molti altri giornali, uscì listato a lutto, ma il direttore Cesare Cestari, di fede repubblicana, non mancò di criticare chi speculava sulla morte del sovrano per dare il via alla reazione. Nel resto dell'isola le impressioni furono contrastanti: se da una parte don Teodoro Mannucci, prete di Marciana Marina, mostrò cautela sul fatto, don Zoppi, prete di Campo, si scagliò contro repubblicani, socialisti e massoni, additandoli a complici dell'assassino. A Capoliveri il ricordo di Umberto I fu affidato a Liberale Garbaglia, che arringò a 800 persone. A Portoferraio il sindaco Giuseppe Bigeschi fece affiggere manifesti di cordoglio, e la giunta proclamò il lutto cittadino per tre mesi. Inoltre furono operate in città una serie di perquisizioni nei confronti di alcuni forestieri “in sospetto di anarchismo”, tutte terminate con esito negativo.
Veniamo ora alle drammatiche giornate di Quintavalle. Dopo l'arresto e la perquisizione in casa, Nicola fu sottoposto a un primo, pesante interrogatorio nella caserma dei carabinieri di Capoliveri. Quindi fu tradotto al bagno penale di Portoferraio. L'arresto di Nicola provocò sconcerto nella popolazione elbana, e la notizia volò rapidamente fin sulla costa toscana. Quando, il giorno dopo l'arresto, dal penitenziario di Portoferraio fu imbarcato sul vapore, per essere trasferito alle carceri giudiziarie di Milano, i passeggeri inferociti gli si scagliarono contro per offenderlo e picchiarlo, per quanto non solo indifeso ma anche ammanettato, e nonostante lo spiegamento della forza pubblica. Anche al porto di Piombino si accalcò una folla di facinorosi, e anche in questo caso si passò dalle ingiurie alle percosse, e solo per poco la cosa non degenerò in linciaggio.
Gli episodi, così come il pessimo trattamento del detenuto da parte della polizia, furono criticati dal Corriere dell'Elba. Il direttore Cestari attaccò: “È un'infamia per un uomo che si presuppone colpevole”. La pubblica sicurezza si difese, segnalando che non si aspettava un simile fatto. E infatti con un altro arrestato, il giorno dopo, ci si premurò di farlo partire prestissimo e con più riserbo.
Fu soprattutto a causa di una missiva del 22 giugno, ritrovata tra le carte di Bresci, se Nicola si trovò nei guai. Purtroppo non sono riuscito a reperire una copia della lettera originale, per cui dobbiamo affidarci alla trascrizione che ne dà Arrigo Petacco, nel suo “L'anarchico che venne dall'America” (Milano, 2000, pag. 78). La prima parte non dice molto di interessante, se non comunicare l'emozione di Nicola per aver ritrovato al paese natio, dopo una decennale assenza, la vecchia madre, i fratelli e molti amici. È scritta in italiano corretto e molto scorrevole.
La seconda parte invece presenta alcuni passaggi illeggibili, frasi di senso confuso in un italiano zoppicante. Tra cui una frase che viene considerata criptica, ma che potrebbe essere un'errata trascrizione che ne falsa il senso originario. Questa parte della lettera fu interpretata dagli inquirenti come messaggi in codice legati al delitto. Quando furono interrogati i diretti interessati, comprensibilmente Bresci non seppe dare spiegazioni a frasi così insensate, mentre Quintavalle affermò che si riferivano a questioni di donne.
Agli interrogatori prima e al processo poi, l'anarchico capoliverese, accusato di complicità nel regicidio, si dichiarò estraneo al delitto, pur riconoscendo l'amicizia con Bresci. Affermò che era stato arrestato unicamente per questa sua conoscenza col regicida e per il suo ideale politico, senza che vi fosse alcuna prova di colpevolezza. La tesi accusatoria invece si fondava sulla convinzione che l'attentatore avesse un complice, e questi non potesse che essere Quintavalle, imputandogli a prova la suddetta missiva, a cui Nicola non aveva saputo dare una spiegazione convincente. Ma la debolezza dell'impianto accusatorio fece pendere l'ago della bilancia in favore dell'elbano. Arrivò così il proscioglimento, e il nostro tornò in libertà il 28 agosto 1901. Ciò non toglie che dovette scontare ben tredici mesi di galera prima della sentenza.
I guai giudiziari non erano finiti. Dopo l'arrivo all'Elba, alla metà di settembre, fu nuovamente processato al tribunale di Portoferraio, l'ottobre successivo, imputato di quattro capi d'accusa, tra cui il famigerato apologia di regicidio. Fu difeso dall'avvocato Stefano Hermite, ma questa volta a nulla valse una buona tesi difensiva: assolto da tre capi d'accusa, sarà condannato a 17 mesi di carcere, poi ridotti a 6 per il provvedimento di amnistia voluto dal nuovo sovrano Vittorio Emanuele III, e una multa di 1200 lire, per incitamento all'odio fra classi sociali. E anche il ritorno in libertà non fu pieno: per dodici anni dovette subire una vigilanza speciale.
Quintavalle cercò in tutti i modi di scrollarsi l'infamia che gli avevano cucito addosso. In questo senso va intesa la lettera al direttore del Corriere dell'Elba, giornale che nella sua vicenda aveva assunto una posizione garantista, pubblicata una settimana prima del natale 1901, quando ancora era invischiato nei guai giudiziari. Nicola ringraziò Cestari della comprensione espressa per le sue disavventure, sostenne di non aver mai fatto parte di “Società anarchiche, iscritto a nessun partito, né in Italia né all'estero, di aver sempre biasimato ogni violenza, ogni brutalità, che invece di far progredire respinge indietro; chiedeva solo di vivere quieto e tranquillo nel paesello natio, presso la vecchia madre, [...] esercitando il mestiere di barbiere che mi auguro vorrà darmi modo di modestamente vivere”.
Eppure teorie di un complotto per l'omicidio di Umberto I hanno sempre allignato. Erano insistenti già in quei giorni, alimentate soprattutto dall'autorità giudiziaria per giustificare le centinaia di arrestati anarchici e le repressioni di circoli e giornali di sinistra. La tesi del complotto fu ribadita nello stesso processo all'attentatore, dal procuratore generale Ricciuti. E anche in tempi recenti ha trovato proseliti. Basti pensare che la ricostruzione storica più nota del regicidio, quella citata di Arrigo Petacco, porta come sottotitolo “Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I”. Ma quanto c'è di vero? E quanto ne è coinvolto il nostro Quintavalle? Proviamo a smontare qualche teorema.
È vero che ci sono prove che il complotto sia nato negli Stati Uniti?
No. Si tratta di illazioni e falsi scoop giornalistici. Il giornale americano in lingua italiana Progresso italo-americano scrisse che durante un convegno anarchico a Paterson vennero estratti a sorte i nomi di coloro che dovevano uccidere Umberto I, Guglielmo II, Francesco Giuseppe e il presidente francese Loubet. Al primo toccò Bresci. Il New York tribune poi specificava che il sorteggio era avvenuto con estrazione del numero della tombola, e faceva i nomi dei partecipanti, tra cui figura quello del nostro Nicola. È evidente che una cospirazione ordita con tali metodi è più roba da barzelletta che da organizzatori seri. Infatti l'inchiesta istituita dalla corte suprema del New Jersey, allegata agli atti processuali italiani, non portò alla scoperta di alcuna pista americana sul caso.
È possibile che Quintavalle fosse coinvolto nel regicidio, come complice o magari come “piano B”?
No. Sia negli interrogatori che nel processo, Bresci rivendicò chiaramente il suo ruolo di attore unico del regicidio. Le sue deposizioni sono coerenti, non mostrano contraddizioni e hanno pochissimi punti oscuri. Inoltre le indagini condotte su Nicola, come sugli altri possibili complici, non portarono a niente, basandosi su accuse debolissime. Usando la logica, è assurdo accusare Quintavalle di complicità: che supporto poteva dare a Bresci dall'Elba, date le tecnologie e i tempi di viaggio dell'epoca? Inoltre se fossero stati veramente complici non si spiega perché nel loro scambio epistolare facessero progetti sul ritorno a Paterson, dato che dovevano ben rendersi conto che dopo il regicidio le possibilità di fuga, almeno per l'esecutore, erano praticamente nulle. Nicola non poteva altresì essere un attentatore di riserva, nel caso che Bresci avesse fallito, perché tra il materiale sequestrato non gli fu trovata alcuna arma: se fosse esistito davvero un “piano B”, coordinato con dei complici, anche lui si sarebbe procurato una pistola a Paterson e si sarebbe esercitato nel tiro, esattamente come Bresci. È quindi impossibile che esistesse un progetto ordito nell'ombra, e dunque che Quintavalle fosse totalmente estraneo al delitto.
È possibile che Bresci informasse l'amico e compagno Quintavalle dei suoi piani?
Non potremo mai dirlo con certezza, ma le probabilità sono basse. Bresci lo ha sempre negato: “Io avevo concepito anche prima di andare in America il disegno di uccidere il re e non ebbi suggerimenti da alcuno e non confidai a persona viva questo mio disegno” (Verbale del 2° interrogatorio, 6 agosto 1900). Anche Nicola lo ha sempre decisamente negato, sia negli interrogatori che in sede processuale. E lo stesso hanno fatto gli altri accusati, i testimoni e la moglie americana di Bresci.
Allora perché si parla di complotto?
Principalmente perché di primo acchito si fa fatica a pensare che l'uomo più potente di uno stato possa essere ucciso da un carneade. Non considerando che la vita di tutti può essere segnata da qualsiasi mano umana. Un caso da manuale è quello di Kennedy: la narrazione del suo omicidio è ancora oggi incancrenita da ogni tipo di teoria cospirazionista. Il parallelo tra il presidente americano e Umberto I però finisce qui. Mentre nel caso di Kennedy il complottismo nasce dal basso (un popolo che in larga parte ama il suo presidente e rimane sgomento di fronte alla verità che l'anonimo Lee Oswald ne abbia spezzato la vita, rifugiandosi quindi in fantasiose trame oscure), nel caso del re d'Italia fu attizzato dalle autorità e gli ambienti conservatori, che avevano interesse ad allargare il più possibile la rete delle responsabilità. Ciò avrebbe significato gettare discredito su tutto il mondo anarchico e di estrema sinistra, additandolo all'opinione pubblica come un'organizzazione criminale tout court, se non addirittura come un'internazionale terroristica. E quindi avere un pretesto per mettere fuorilegge il dissenso e giustificare uno stato di polizia.
In conclusione, Nicola Quintavalle era magari un idealista esaltato, ma un brav'uomo. Un innocente rimasto stritolato da un'insensata caccia alle streghe.
Andrea Galassi