Enzo Panciadicane, che in realtà si chiamava Gaudenzio, nome godereccio che, non so come e da quali lombi contadini si sia sparso nei secoli nelle campagne di Marciana e Patresi abitate e zappate dalla numerosa chiatta dei Coltelli, un giorno aprì in Piazza di Sopra una bottega di alimentari che in realtà era il primo negozio di prodotti tipici e introvabili. Era una bottega minuscola, poco più di uno sgabuzzino, ma in un posto strategico, accanto alla barberia di Fagiolo e al forno di Nilo e Ida e di fronte al Bar di Aldo.
Panciadicane, va detto, per amore della verità, senza troppo curarsi delle norme igieniche (cosa che non importava molto ai clienti abituali), spartiva acciughe sotto sale fatte in casa, lavate, deliscate e annegate nell’olio, nella pementina e in altre spezie, sfilacciava la tonnina o faceva a fette la bottaraga (e forse il proibitissimo mosciame), per farcire panini e schiacce da degustare con più di un bicchiere di vino. Ma in quel caos di scatolette e confezioni, in quel frigo strabuzzante di salumi, formaggi, pesci affumicati e aringhe grasse, salate e piene di uova, si poteva trovare anche l’allora sconosciuto lardo di Colonnata e il rigatino più buono del mondo.
Le donne marinesi stavano abbastanza lontano da quella botteguccia, preferendo comprare in botteghe meno confusionarie e nei supermercati che stavano nascendo, ma sul panchino davanti alla bottega di Panciadicane c’era sempre qualcuno che mangiava qualcosa di strano o stranamente preparato, una schiaccia gocciolante olio e prezzemolo, o un formaggio il cui odore, se il vento del nord si infilava nella Gretta, arrivava fino all’altare della Chiesa di Santa Chiara e faceva venire l’acquolina in bocca a Don Zeni e a Gogo. Su quel panchino, che alla bisogna diventava tavolino e banco per pulire il prosciutto che appiccava a uno scaleo di ferro, durante l’ipotetico orario di apertura della bottega di Panciadicane - non sempre rigorosamente rispettato quando era di turno lui e non la moglie Narcisa - c’era sempre qualcuno, a colazione, pranzo o merenda, che bagnava col vino o la birra salate ghiottonerie.
Panciadicane era di poche parole, serafico, con due baffetti sotto i quali c’era un’eterna una sigaretta sbilenca, appoggiata su un sorriso ironico da gatto, che a volte compare ancora sul viso del su’ figliuolo Roberto o dei suoi nipoti. E con quel sorrisetto eterno e con gli occhi strinti come a mettere sempre a fuoco il mondo, Panciadicane guardava passare la vita, osservando le donne (che gli piacevano molto) e gli uomini. Parco di parole ma non di battute e racconti, senza scosse apparenti. Un fatalista al quale probabilmente, quello che vedeva succedere nel mondo non piaceva molto. Come una sofferenza ben nascosta.
Panciadicane era molto amico del mi’ zio Lampo (che lo riforniva anche di giarette di acciughe) e poi i due avevano fatto un terno inseparabile con Antonio il Bidello, un contadino pugliese, con la pelle cotta dallo zappone e dal sole, che nel suo peregrinare per l’Italia era approdato alle scuole medie di Marciana Marina e al Cantinone del Catta, in fondo al Porto, dove, chissà perché tutti i lavoranti dovevano chiamarsi Antonio. Quel Bidello meridionale, già coi capelli canuti, era roso dalla nostalgia per i suoi campi e per la sua famiglia e, quando finalmente ottenne il trasferimento a casa sua, festeggiò con una sbornia colossale al Bar Roma insieme ai suoi dispiaciuti amici. Una contentezza per un ritorno in Puglia che durò poco, visto che una malattia tanto ingiusta quanto veloce se lo portò via entro pochi mesi dopo. Come se il destino lo aspettasse nascosto dietro le case bianche di calce.
Una sera d’estate, il mi’ zio Lampo si era operato da poco e avrebbe dovuto osservare una dieta stretta e analcolica (alla fine della sua vita i dottori lo avrebbero aperto almeno 11 volte), trovammo il trio inseparabile seduto a un tavolo rotondo dell’affollatissimo tendone del Bar Roma, con tre birre grandi e i bicchieri già pieni davanti. Di fronte alla nostra sconsolata richiesta di spiegazioni di quel che stava succedendo, mentre Panciadicane e Lampo si guardavano in sottecchi falsamente contriti, ma con sulla faccia lo stesso sorrisetto malandrino, e Lampo, negando l’evidenza come Stalin, disse alla mi’ moglie Marianne che lo cazziava che avevano bevuto solo una biretta. Ma quella giovane donna svizzera era davvero arrabbiata per tanta impudenza e Antonio il Bidello tentò una disperata difesa dell’amico in difficoltà: «No, Lampo di’ la verità: ne abbiamo bevute un paio a testa». Ma sotto il tavolino, tra i piedi del terno di complici, a testimonianza dell’insostenibile bugia, c’erano i cadaveri verdi e vuoti di almeno una ventina di bottiglie di Nastro Azzurro grandi.
Sparito il Bidello, aumentati gli acciacchi e l’età, con Marianne che marcava da vicino Lampo e ne limitava gli accessi alimentari, spengendo quelli alcoolici, il mi’ zio e Panciadicane continuarono a frequentarsi per qualche bicchiere vietato e qualche spuntino proibito ad alto tasso di colesterolo, fino a che Enzo pensò di andarsene, decidendo lui come, dove e quando, lasciando un intero paese sbalordito a ricordare quel sorriso ironico e stanco, a volte beffardo, che ogni tanto ricompare.
Umberto Mazzantini