La conclusione di una trilogia, un viaggio iniziato con la pubblicazione su Elbareport di “Prepariamoci al giorno in cui si ricordano le stragi e l’esodo dei profughi istriani” del 01/02/2021 e successivamente di “10 febbraio, qualcosa da ricordare”del 10/02/2021. Riflessioni sull’esodo, talvolta personali, in quanto figlio di esuli ed esule anch’io del confine orientale, delle terre perdute, dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Come un triangolo equilatero dai lati e angoli uguali. Ora elbano d’adozione, una terra che amo profondamente, che cerco di capire, conoscere e rispettare, che ogni giorno mi riserva una sorpresa, con le sue meravigliose spiagge e montagne. Mi ricorda la mia terra d’origine, l’Istria. Elba come Itaca.
L’esodo giuliano-dalmata, il più grande esodo di persone che l’Italia abbia mai conosciuto e che è passato sotto silenzio, più di 300mila persone furono costretti a fuggire dalla propria terra natia, l’Istria e la Dalmazia. L’emigrazione forzata di cittadini di etnia e lingua italiana della Venezia-Giulia, del Carnaro e della Dalmazia. Due le ondate principali: la prima, dal 1946 al 1951 con protagoniste la città di Fiume, Pola e tutti gli altri territori istriani annessi alla Jugoslavia. La seconda, tra il 1953 e il 1956 che coinvolse principalmente la popolazione italiana della zona B. Un esodo che continuò nel tempo, fino agli anni ’70.
La scomparsa degli italiani da una regione come l’Istria, spezzò di fatto una continuità storica che perdurava dall’impero romano. Una dicotomia città/campagna, costa/entroterra, segnata dalla spartizione tra popolazioni italofone e slavofone. In Istria, la prima era maggioritaria da Trieste a Pola eccezion fatta per le campagne dell’entroterra, dominate da contadini e fattori di origine slovena e croata. In Dalmazia la comunità italiana era minoritaria, costituita unicamente intorno alla città di Zara.
Quali furono le ragioni dell’esodo.
Diverse, il cambio della quotidianità con l’arrivo della Jugoslavia di Tito, una vita quotidiana segnata da incertezze per il futuro della propria famiglia, in uno Stato dove chiunque parlava italiano era automaticamente escluso, a questo si aggiungevano le inquietudini per il presente fatto di miseria e povertà. Il trattato di pace del 1947, che stabiliva che l’Italia doveva cedere alla Jugoslavia il Carnaro, Zara, la quasi totalità dell’Istria, del Carso triestino e goriziano e l’alta Valle dell’Isonzo. Per coloro che abitavano nei territori ceduti alla Jugoslavia, il trattato di Parigi sanciva la perdita della cittadinanza per tutti. Le opzioni per gli italiani furono essenzialmente due: restare in Jugoslavia rinunciando alla propria identità oppure partire per l’Italia, ma lasciare la propria terra e la casa. Chi non rientrava in Italia correva il rischio di rimanere apolide. L’esodo non fu una migrazione volontaria, se è vero che il governo jugoslavo non avrebbe mai emesso delle leggi ufficiali con cui obbligare la comunità italiana all’esilio, è anche vero che Tito e i suoi organi di controllo si sarebbero adoperati ad attuare pressioni verbali e anche minacce fisiche
protratte nel tempo, da determinare per gli italiani una situazione di invivibilità, dalla quale la strada dell’esilio fu l’unica via percorribile. Gli oppositori venivano definiti “nemici del popolo” e sottoposti a processi epurativi. Gli italiani erano particolarmente colpiti, per la loro contrarietà all’annessione jugoslava e la loro identificazione con il regime fascista. Quello giuliano-dalmata fu un esodo per restare italiani. Un esodo affrontato con determinazione, verso un’Italia sconfitta e semidistrutta, quale reazione al tentativo di naturalizzazione voluto nella primavera del 1945 dai partigiani slavi. Secondo uno storico tedesco, l’esodo degli italiani è da considerarsi un’espulsione, un atto apparentemente volontario e facente parte di un progetto di vera e propria pulizia etnica, che rientrava nel processo di formazione del nuovo Stato comunista di Tito. Le violenze derivarono anche da vendette personali, da decenni di frustrazioni della componente slava nei confronti degli italiani e dalle brutalità commesse dai reparti speciali antiguerriglia fascisti nei confronti dei civili. Ma, oltre a questo aspetto, ci fu soprattutto una chiara logica politica e ideologica, di eliminare in primo luogo coloro che più potevano infastidire la costituzione della nuova realtà jugoslava. Una realtà dilaniata dal 1941 al 1945 dalla guerra civile, tra partigiani titini e gli ustascia croati. Alla fine del 1945, la Croazia era un vero e proprio lago di sangue.
Nell’arco di pochi anni le terre perdute si sarebbero spopolate completamente. Nel febbraio 1947, in città come Pola, Rovigno, Parenzo e Fiume si sentiva un unico rumore, lo sbattere monotono dei martelli, gli italiani che preparavano i bagagli, portandosi via mobili, attrezzature e animali. Il lavoro di una vita e persino i defunti riesumati. Gli effetti di queste azioni furono pesanti. Nel 1946 la “Voce del Popolo” quotidiano di Fiume in lingua italiana, riportava che agli italiani fu concesso dalle autorità jugoslave di portare una valigia fino a un massimo di 50 kg nonché una somma massima di 25mila lire. Il resto doveva essere lasciato all’amministrazione jugoslava. Come riportato nel saggio di Dino Messina “Italiani due volte”, la famiglia Vivoda originaria di Pola nello sbarcare ad Ancona, dopo la traversata sul piroscafo Toscana, riportò: “quando arrivammo ad Ancona fummo accolti da gruppi di manifestanti che cantavano bandiera rossa e ci invitavano a tornare a casa. Ci chiamavano fascisti ma eravamo soltanto italiani”. In Emilia, ancor più che in altre parti d’Italia valeva il pregiudizio: italiani d’Istria uguale fascisti. A Bologna ad esempio, i ferrovieri chiusero i lucchetti dei vagoni merci dove stavano transitando dei profughi, tristemente noto come “il treno della vergogna”, negando loro per ore acqua, cibo e accesso ai bagni, finché alla fine la pietà del capo stazione li fece partire. Un carro bestiame pieno di esuli che volevano continuare ad essere italiani. “Quando siamo arrivati in Emilia è stata dura, quando passavi per le strade, certa gente sputava per terra, ad altri l’hanno anche picchiati perché ci consideravano erroneamente fascisti”. Antonio Zappador, esule istriano e professore oggi a Carpi, raccontò più volte la seguente storia: “la cosa brutta, mia personale che per molto tempo mi ha pesato, che a 11 anni quando sono scappato via, non sapevo ne leggere ne scrivere in italiano, perché i maestri italiani li avevano presi e buttati nelle foibe. Tito ci aveva assegnato dei maestri slavi, bisognava parlare slavo.
Quando iniziai a cercare lavoro in Italia, mi domandavano sempre, chi sei? Rispondere sono un profugo istriano era come dire sono un lebbroso”. L’effetto voluto dagli eccidi comunisti era proprio questo, privare la popolazione italiana autoctona dei suoi dirigenti più autorevoli, fino ad arrivare ai più umili, come i parroci.
Probabile che inizialmente i vertici jugoslavi non desiderassero un esodo di massa degli italiani. Si trattava pur sempre di manodopera specializzata, altamente alfabetizzata, sarebbe stata una risorsa umana preziosa per il nuovo Stato comunista, a patto che si sottomettessero, ma gli italiani non avevano alcuna intenzione di chinare la testa. Non praticarono una resistenza armata, ma semplicemente rifiutarono di piegarsi al potere slavo-comunista e scelsero alla fine l’esodo in massa.
L’esodo, per decenni è stato insabbiato e comunque minimizzato dalla storiografia di entrambi i fronti, sia italiana che slava. Perché?
Le risposte sono diverse, negli ultimi 50 anni l’esodo giuliano-dalmata è stato rimosso per espliciti motivi di convenienza politica. La situazione dell’Europa durante la Guerra fredda e quella interna dell’Italia. Inoltre non sarebbe stato gradito né a Washington né a Londra, che l’Italia tirasse fuori dai cassetti queste stragi. La Jugoslavia di Tito era un pezzo prezioso sulla scacchiera degli equilibri internazionali, aveva spezzato la morsa dell’Unione Sovietica nell’Europa balcanica. La sua posizione di Paese non allineato aveva permesso alle diplomazie occidentali manovre diversive, altrimenti impossibili nel quadro internazionale, non solo europeo ma in Medio Oriente e nell’Asia. Inoltre, le foibe, l’esodo dalle terre perdute, il trattato di Parigi del 1947, erano tutte il segno traumatico della realtà, cioè della sconfitta dell’Italia, dell’incapacità di un Paese, tra il 1946 e il 1948, di difendere una parte del suo territorio. Un territorio che era un insediamento storico, aldilà di inevitabili aggiustamenti di frontiera, che non potevano non seguire una guerra perduta, e quella sconfitta nazionale metteva a nudo un equivoco, su come si reggeva la retorica ufficiale della Repubblica, la natura immacolata della resistenza. Erano o non erano le formazioni partigiane di Tito alleate al nostro movimento di liberazione. Chi le aveva lasciate arrivare oltre l’Isonzo. Chi aveva tradito i partigiani del confine orientale, rendendo vana la loro lotta contro il nazi-fascismo.
La presa di coscienza, con cui si è assistito con interesse, in questi ultimi anni all’esodo giuliano-dalmata, è dovuto al fatto che ci si è resi conto, che amputando dal passato recente della nazione gli eventi di queste terre perdute, si veniva a perdere il senso della nostra identità nazionale, del nostro cammino di unificazione dal Risorgimento alla Costituzione repubblicana, attraverso quella Prima guerra mondiale che aveva segnato il compimento dell’unità nazionale voluto dai padri del risorgimento. L’Italia rischiava di diventare un Paese senza memoria, in cui i processi di globalizzazione e di integrazione europea richiedevano una giusta dose di consapevolezza nazionale, per reggere le difficili competizioni che l’attendevano.
Fu soltanto nel 2004, che in Italia venne istituito nella giornata del 10 febbraio il giorno del ricordo, in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Parlare oggi di esodo, significa valorizzare la storia di un territorio, quello adriatico, ricco di cultura e storia. Un crocevia di traffici e influenze. Gli eccidi delle foibe e l’esodo, rappresentano il punto finale di una secolare lotta per il predominio sull’Adriatico orientale. Un territorio a lungo conteso da una popolazione, anzi, da due popolazioni, quella italiana e quella slava. In un senso più ampio, la sorte degli italiani della costa orientale dell’Adriatico è un paradigma della barbarie ideologica del novecento. Essi lo hanno pagato, hanno pagato lo scontro tra queste due ideologie totalitarie, senza le quali il conflitto etnico italo-slavo si sarebbe potuto risolvere in un altro modo, senza una tragedia, senza ingiustizie collettive di tali proporzioni. Parlare di quanto accaduto è quindi necessario, è fondamentale non tanto per un anacronistico ritorno al passato, quanto per conservare la memoria storica di un evento che ci accomuna tutti dal primo all’ultimo proprio in quanto italiani.
Enzo Sossi