“Vere dignum et justum est, aequm et salutare nos tibi semper et ubique gratias agere, Domine sacte pater, omnipotens aeterne Deus”, recita il Canone del Prefazio della messa cattolica. “Ringraziare Dio” è davvero sempre cosa degna, giusta, equa e fonte di salvezza” per i credenti. Ma si parla di Dio e di ciò che gli è dovuto, e il ragionamento è su un piano alto, e altro. Tuttavia è interessante notare la scansione degli aggettivi -ben quattro- due dei quali derivano direttamente da Dio -“degno” e “salutare”- poiché dipendono dalla natura divina; gli altri due appartengono al riconoscimento da parte dei fedeli -“giusto” ed “equo”-, e introducono una distinzione che attraversa tutta la lunga storia del diritto, fino alle vicende dei nostri ultimi giorni.
“Giusto” / “equo”. Perché questa distinzione? Non sono termini equivalenti?
Evidentemente no. Justum (giusto) contiene il termine “Jus”, che fa riferimento al diritto, alle leggi. Cioè a un sistema stabile di norme elaborate per essere paradigma dei comportamenti dei “cives”, dei cittadini: “legalità” o “illegalità”, cioè conformità alla legge, alla norma; o non conformità, quindi “reato”. Non c’è spazio di ambiguità: o dentro o fuori.
“Aequum” (equo) è invece termine più complesso, sfaccettato, ambiguo, in certo modo discrezionale. L’“aequitas”, l’“equità”, deve considerare pesi e contrappesi su ciascuno dei due piatti della bilancia retta dalla mano sinistra della divinità che la rappresenta da tempi remotissimi; significativamente nella mano destra Dike -questo il nome greco della divinità- ha la spada, che usa dopo aver soppesato tutte le ragioni “in causa”. Rubare contravviene a una norma, a una legge; è un “fatto” che costituisce reato, e pertanto “prevede” una pena stabilita. Ma rubare per fame non può essere comparabile a rubare per avidità, per mero desiderio di possesso o di accumulazione. Comminare a chi ruba per fame al supermercato e a chi ruba una felpa di marca in uno store del Centro è sicuramente rispettoso della “giustizia”, ma non certo dell’“equità”. La giustizia guarda al reato, l’equità considera il colpevole, senza perdere di vista il danneggiato.
Dunque la Giustizia ha il lavoro semplificato, l’Equità lo ha invece molto complicato. Se poi ci si mette di mezzo il moralismo, addio! Gli antichi, per evitare di cadere nel pericolo del moralismo, avevano immaginato bendata la dea della Giustizia: non doveva veder chi giudicava, doveva emettere sentenze obiettive. Ma ci voleva proprio una dea! La giustizia umana è cieca perché brancola fra “justum” ed “aequum”; e se la legge le offre un appoggio sicuro, la necessità di valutare diverse ragioni, diverse opportunità, diverse condizioni la espone a un rischio continuo: perché ciò che gioca a favore di un’attenuante reca danno a chi subisce le conseguenze di una maggiore clemenza, e viceversa.
Di fronte al terrorismo degli anni ’70-80 dello scorso secolo lo Stato ha introdotto una legislazione che utilizzava la possibilità di sconti di pena o di attenuazione delle misure di reclusione per i terroristi che si fossero dissociati, pentiti, o che comunque avessero dato fattivi contributi per combattere una piaga che affliggeva lo Stato e i cittadini -pratica ampiamente presente nel diritto anglosassone ma sconosciuta fino ad allora nel nostro ordinamento-. Allo stesso tempo una riflessione più matura sul principio di civiltà giuridica affermatosi con l’Illuminismo -recepito nella Costituzione repubblicana- considerava con sempre maggiore attenzione la necessità che le pene inflitte dai tribunali avessero una funzione prevalentemente rieducativa e solo “pedagogicamente” punitiva: finalità della pena era creare le condizioni per reimmettere chi avesse compiuto dei reati nel consesso civile, dopo aver maturato consapevolezza del proprio errore e desiderio di vivere una nuova vita. Questa riflessione più matura trovava, nella prospettiva per il condannato di essere “premiato” per comportamenti “virtuosi” tenuti durante la carcerazione, un incentivo a una reale rieducazione civica. Permessi-premio, visite più frequenti dei familiari, possibilità di “licenze” brevi, possibilità di lavoro all’esterno delle strutture carcerarie, possibilità di riduzioni di pena dovrebbero indicare al condannato recluso una via alternativa a una vita alternativa.
Dopo il feroce attacco allo Stato sferrato nei successivi anni ’80-’90, la legislazione “premiale” fu estesa anche ai reati di mafia, come contrappeso alla legislazione speciale che aveva aggravato notevolmente le condizioni di reclusione di chi era condannato per tali reati (“41 bis”, prima di tutto). Gli irriducibili avevano pene aggravate da condizioni di vita all’interno delle strutture carcerarie particolarmente rigide; i “collaboranti” potevano fruire dei vantaggi della legislazione premiale. Nessuno avrebbe mai potuto sapere se i “pentimenti” erano “sinceri” o piuttosto frutto di opportunismo o di strategie legate a dinamiche interne al mondo di appartenenza dei condannati; ma se i riscontri della magistratura rilevavano un obiettivo vantaggio per la lotta al crimine scattavano le condizioni premiali.
E’ evidente che questa legislazione, lungi dal semplificare l’azione della magistratura, la caricava di ulteriori incombenze e responsabilità, sia nell’accertamento della veridicità dei collaboranti, sia nella dialettica con la pubblica opinione, che -non avendo competenza né coscienza nel valutare il reale contributo dei collaboranti alla lotta contro le mafie- ha sempre teso a essere molto rigida: “Chi ha sbagliato deve pagare. Chi ha commesso reati a danno di altri deve essere punito. Chi delinque non è credibile, e comunque non c’è da fidarsi. Chi è portato a delinquere non cambia”. Per antica tradizione a questa “pubblica opinione” aderisce di solito anche il personale delle Polizia penitenziaria; e questa è una complicazione ulteriore per la magistratura.
Giovanni Brusca è Giovanni Brusca. E’ difficile immaginare capacità di pentimenti o di mutamenti di vita. Ma questo non deve interessare l’opinione pubblica, che ha delegato ai magistrati il compito di amministrare l’azione penale. E forse non deve interessare neanche i magistrati. Come dice oggi il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, chi si dichiara “pentito”, chi “collabora”, una scelta l’ha comunque fatta: la Mafia lo perseguiterà fino alla morte. Lo dice anche il giovane cantante neomelodico poeta della mafia: “Pentito, ti troverò”. Questo deve fare la magistratura: ottenere una obiettiva collaborazione. Obiettiva, non “sincera”, non “convinta”, non frutto di pentimento: questi aspetti non interessano altro che il soggetto che collabora, non i magistrati o i cittadini.
Se il contributo ha dei riscontri obiettivi ed è rilevante, il collaborante ha “diritto” a fruire dei vantaggi che la legge ha previsto per lui, come contropartita dei vantaggi che la collaborazione offre al procedere delle indagini e della lotta alla malavita. Poi, il collaborante resta quello che è, comunque sia.
Giovanni Brusca è Giovanni Brusca. Se si è pentito o ha giocato sporco riguarda solo lui: nessuno ci chiede di ammirarlo o amarlo, o di considerarlo altrimenti. E’ stato condannato, e lo Stato ha fatto ciò che doveva. Ha maturato la scarcerazione per fine pena: lo Stato ha fatto ciò che doveva. L’ha scarcerato, non l’ha assolto.
Luigi Totaro