Si sta come/d'autunno/sugli alberi/le foglie (G.Ungaretti)
Il 24 maggio del 1915, l’Italia entrava nella Grande Guerra, un conflitto di proporzioni immani e sconosciute, che battezzò nel sangue il secolo da poco iniziato. Soltanto relativamente all’Italia, i morti furono più di seicentomila, oltre i feriti, i mutilati, i segnati per sempre nel corpo e nello spirito. Anche l’Isola d’Elba pagò un prezzo altissimo, testimoniato dal lungo elenco di nomi incisi nella pietra delle lapidi custodite nelle nostre chiese o presso i monumenti. Nel mio comune d’origine, Rio Marina, furono 56 le persone che non rividero più il loro mare né la propria casa. Nella triste classifica dei caduti, Rio occupa il terzo posto, dopo Portoferraio, che ne ebbe 114 e Marciana, che ne pianse 58.
Dunque, molte nostre famiglie conobbero il lutto di un caduto al fronte, in battaglia o per malattia, a causa delle pessime condizioni a cui la vita delle trincee costringeva.
Così, ad esempio, morì Luigi Catuogno, nipote di mio nonno Umberto, vittima dell’esplosione della polveriera di cui era custode, lasciando sei orfani; così, poco più che ventenne, si spense di sfinimento Guido Canovaro, zio di mio padre, a Trieste, ad un mese esatto dalla fine della guerra, il 4 dicembre 1918; così, a trent’anni, perse la vita Ottavio Ulivieri, marito di Isolina e padre di Paladino, anche lui abitante al Cavo. Il nipote di Ottavio, l’amico Marco Ulivieri, che è ancora alla ricerca del luogo della sua sepoltura, mi ha inviato foto e notizie di questo suo nonno, nato nel 1888, che aveva partecipato con onore, tanto da riceverne una medaglia, anche alla guerra italo-turca del 1912.
Marco, commentando la mia ricerca di notizie sui caduti della Prima Guerra nel nostro comune, scrive:
Non ho mai pensato che la conoscenza del passato serva a non commettere i medesimi errori: l'essere umano da questo punto di vista è davvero tonto. Ma noi viviamo soprattutto per la Verità e questo che tu ci accingi a fare serve proprio a questo.
Mi sembrano parole belle e giuste.
Un’altra storia struggente è quella di Giuseppe Giannelli, nato a Rio Marina nel 1885 e morto in Trentino a pochi giorni dal Natale del 1916. Era sposato con Maria Muti, dalla quale aveva avuto tre figli: Boris, Elena ed Eldorada.
Giuseppe era un uomo coerente, di grandi valori morali: dal fronte scriveva lettere piene di coraggio e di sentimento alla sua sposa. Queste lettere, gelosamente custodite dalla giovane vedova per molti anni, sono state poi affidate alla figlia Elena, che ha coinvolto il genero, Enzo Mignone, nella loro pubblicazione.
Enzo ha così curato il volume dal titolo “Carissima Maria”, una copia del quale è depositato presso l’Archivio Storico di Portoferraio. Nel commentare le numerose lettere del soldato Giannelli, Enzo scrive:
Per assicurare la completa aderenza al pensiero di Giuseppe, le lettere sono state trascritte così come sono state scritte.
Al di là degli errori che si possono riscontrare, del modo di esporre il proprio pensiero, anche con accenni dialettali, le lettere vanno lette con ponderazione riflettendo sul significato profondo che nascondono le parole di Giuseppe.
Le sue parole fatte di slancio e spontaneità, mettono in evidenza una persona profondamente legata alla propria famiglia e ai suoi valori.
Il suo amore è genuino, vero, fatto di poche parole ma che trasmette un calore profondo.
Quando scrive “Carissima Maria”, le sue parole sono staccate dal resto del testo, quasi a voler dire che Lei, pur nel contesto di un ambiente difficile, resta il suo punto di riferimento, la sua speranza, la sua certezza.
Giuseppe è una persona solida, decisa, ma non sarebbe nulla senza la figura di Maria che gli è accanto in maniera quasi appartata e che porta avanti, anche lei, la sua lotta per la vita.
Man mano che si va avanti, la lettura diventa più coinvolgente. Si impara a conoscere la guerra con tutti i suoi orrori e le sue conseguenze.
Giuseppe, in modo preciso quasi come un incallito reporter, ti rende partecipe di ciò che sta accadendo e ti fa odiare, insieme a lui, tutto ciò che non è amore e rispetto degli altri.
Anche in questo ambiente, Giuseppe resta coerente con se stesso, con i suoi principi, e affronta la morte con rassegnazione, ma anche come messaggio per un mondo migliore.
Quelle che seguono sono la prima e l’ultima lettera del carteggio, cui segue la missiva di un commilitone, da Livorno, ben sette anni dopo, che comunica alla famiglia particolari della caduta e della sepoltura del loro Giuseppe.
28/6/1916
Carissima Maria
Da tre giorni che ci troviamo vicini al fuoco, ma anzitutto ti prego di non sconsolarti che per lo più io sono al sicuro benché le granate ogni tanto mi scoppiano vicine, ài capito, credi a quello che ti dico che in proporzione degli altri sto bene, però i disagi della guerra sono tanti e sono quattro notti che non dormo affranto di stanchezza quasi senza mangiare, e per riposare mi sono buttato sotto un albero allo scoperto e piove. Ora dopo mezz’ora mi sono destato e ti scrivo questi scarabocchi col freddo che mi fa tremare.
Quel po’ che ti posso scrivere sono costretto a spedirtelo senza francare.
Spero avrai ricevuto anche l’altra corrispondenza che ti inviai.
Vedrai che presto mi abituerò a questi disagi che capirai bene ora sono dolorosi.
E se ritardo a scrivere non t’impressionare, poiché capirai, siamo quasi sulla cresta di un monte e le comodità sono sparite.
Bacia affettuosamente i nostri adorati piccini e saluta mia e tua famiglia. Ti bacio caramente te, tuo
Giuseppe
Questo è l’indirizzo.
Al soldato G.G
Gruppo 203^ M. 24^ sezione mitragliatrici – 4^ Divisione
Carissima Maria
È da sotto la trincea, almeno cinquanta metri, e mentre i proiettili austriaci sibilano sopra la testa, che vergo queste righe.
Credevo di sentire maggiore impressione nell’udire, nell’ora del combattimento, la ridda infernale causata dal fuoco dell’artiglieria, mitragliatrici, fucileria, lancia bombe e bombe a mano, ma credi pure che ne resto indifferente.
Mi trovo qui poiché ò portato il rancio ai compagni di trincea che quasi desidererei di esserci anch’io, poiché sono stanco, ò freddo, fame e sonno.
Ora quando ritorniamo al luogo di rifornimento, se gli austriaci ci vedono, che è facile, ci tirano, o col cannone o col fucile o colle mitragliatrici, ma stai sicura che è difficile che ci prendano perché noi adoperiamo la massima prudenza.
Di salute, benché stanco, sto bene e così mi auguro sarà di te, dei nostri adorati figli e di mia e tua famiglia.
Qui, cara Maria, è una nuova vita che ad ogni costo bisogna che uno ci si adatti, e mentre che la vita è in pericolo ed il pensiero rivolto ai nostri cari, bisogna che si scherzi come se si fosse al sicuro, tanto è lo stesso.
Se quel proiettile dovrà colpire, colpirà per combinazione e speriamo che questa combinazione non avvenga.
Ti prego di farti coraggio tanto è uguale.
Quando mi scrivi non mandare più danari, tanto non servono più.
Ormai ci abituiamo alla pagnotta tutta verde dal mucido, a stare due o tre giorni senza bere niente, senza mangiare e via di seguito. Queste sono le esigenze della guerra e bisogna sopportarle con pazienza se no è peggio.
Termino dandoti nuovamente, ossia pregandoti che tu stai allegra. Bacia i nostri cari piccini, saluta mia e tua famiglia, ti bacio te, tuo
Giuseppe
L’indirizzo è così, almeno credo:
al soldato conducente G.G
avere tue notizie 3° gruppo 24^ sezione mitragliatrici - 4^ Divisione - 20° Corpo d’Armata
Zona di guerra
Ma vedrai prima che possa avere tue notizie passerà qualche mese
Livorno 2/12/1923
[…] Il posto è proprio Capriolo in prossimità di Caoria, piccolo paese più vicino alla linea.
Suo marito fu sepolto in una piccola altura che c’era fra fra due mulattiere, cioè quella che andava sul Caurion e Cardine, l’altra che andava su Busa alta , monte Paradiso.
Questo cimitero che contava una ventina di morti quando accadde la sciagura di suo marito e del Fabiani e di altri, gli si fece la croce con i loro nomi e cognomi poi sempre il cimitero si ingrandì che lì vicino c’era un ospedaletto da campo.
Questo è l’indirizzo esatto.
Raccontando, quando è possibile, qualche sprazzo dell’esistenza individuale di questi giovani di venti e trent’anni, catapultati a combattere una guerra voluta dai governi e non dai popoli, costretti a sacrifici indicibili e assurdi, fino alla rinuncia suprema della vita, forse riusciamo a sentirli più vicini, a toglierli dall’anonimato, a restituire loro un volto, sentimenti, speranze, paure e a capire meglio l’immensità del loro dramma e la folle insensatezza della guerra.
Maria Gisella Catuogno