Mi raccontavano un aneddoto, apparentemente leggero, ma che la dice lunga sulla tempra dei minatori. Un cavatore, che aveva passato tutti i giorni della sua vita al lavoro tra cava e vigna privata, da anziano gli era rimasta solo la seconda. Un giorno, comprensibilmente, aveva deciso di riposarsi: “Sai che c'è? Oggi 'un c'ho voglia d'andà a'llogo [l'orto]”. Al che i figli sbigottiti della stranezza: “Gezzu, babbo è 'mpazzito! Ci tocca portallo a Voltera!”
La vita di un cavatore era assorbita quasi esclusivamente dalle miniere. Ma non solo. Per questi uomini gli svaghi (non parliamo delle ferie, poi) erano lussi da ricchi. Fuori dalle cave c'era altro lavoro.
Le verdure per i pasti e il vino spesso venivano dagli orti e le vigne degli stessi cavatori. Quasi tutti avevano il loro più o meno piccolo pezzo di terra di proprietà. Nelle stagioni in cui le ore di luce erano abbastanza i cavatori, all'andata e/o al ritorno, passavano dal loro orto e facevano qualche lavoretto. E quando si richiedevano lavori più impegnativi (la potatura e la sarchiatura, per dire), si dedicavano a essi le giornate festive.
Un'espressione che sempre meno anziani usano è “Agosto: cala verno”. Oggi è usata giusto come battuta, dato che fino a ottobre ci sono giornate da bagni al mare. Ma in passato (quando anche i bagni al mare erano lussi da ricchi) aveva un significato di tutt'altra rilevanza. Con essa si voleva intendere che già ad agosto le ore di luce iniziavano a declinare con decisione. E questo significava che gran parte di esse era spesa in miniera, e ne rimanevano pochissime, e poi punte, per il resto dei lavori in campagna. E questo poteva essere un grosso sacrificio per chi, anche da quello straccio di terra ci tirava fuori la sopravvivenza.
Un'altra esigenza primaria era lo scaldarsi, d'inverno. Avendo le case solo il camino, serviva legna. I cavatori percorrevano quasi ogni giorno quei sentieri che portavano alle cave, e per buon tratto essi passavano per boscaglie e macchie. Anche qui, all'andata e/o al ritorno, non era raro che si portassero un pennato per fare un po' di legna, che raccoglievano in fascina e si caricavano sulle spalle per portarla a casa, spesso per qualche chilometro.
Ecco, gli spostamenti. Un altro aspetto da tenere presente della corporeità di quelle persone. Che per raggiungere la cava contavano sulle proprie gambe. Un conto era se vivevi a Rio Marina e dovevi arrivare a Vigneria, Giove o il Bacino: poche centinaia di metri, e ti potevi svegliare a orari ragionevoli. Relativamente bene se dovevi scendere da Rio Alto, o se da Longone dovevi recarti a Terranera. Ma già le cose si complicavano se dai centri riesi eri al lavoro a Rio Albano: dovevi sciropparti quattro chilometri di sentieri sconnessi.
Nessuna alternativa avevano i capoliveresi: se erano fortunati toccava loro Calamita, sei chilometri di tratturi vallonati. Ma il peggio era il Ginevro: qui i chilometri si avvicinavano ai dieci, su dislivelli micidiali che dovevano sembrare una discesa all'inferno. Per questa ragione i cavatori delle due miniere capoliveresi lavorarono a turni settimanali, per molti anni a cavallo tra Otto e Novecento.
Il problema degli spostamenti lunghi era duplice, anche quando nel corso della prima metà del Novecento i tracciati erano sempre più stradali e meno per sentiero, e alcuni cavatori potevano permettersi una bici. C'era la fatica per la percorrenza, che si aggiungeva a quella del lavoro. Ma c'era anche il fattore tempo: uno spostamento che poteva richiedere anche un paio d'ore, quindi quattro tra andata e ritorno, significava che la sosta all'orto o alla vigna era impossibile in certe stagioni, che il ritorno a casa era a buio inoltrato, che la condivisione della giornata con i famigliari era quasi annullata.
Insomma, è abbastanza chiaro che per questa schiuma della terra (i nostri nonni, non lo dimentichiamo mai) c'era la condanna a una vita di lavoro, fosse quello della onnipresente cava, che le assicurava due soldi di sopravvivenza, che quello fuori dalla miniera, per altre necessità.
Andrea Galassi