Nel 1881 cessava la trentennale gestione della Regia Cointeressata, una società mista pubblica/privata. Con il contratto di appalto triennale del 1° luglio 1881 entrò una gestione totalmente privata, quella della Banca Generale, considerata per importanza il secondo istituto di credito italiano di quegli anni. Dirigerà le miniere solo fino al 1888, tra un bando di gara andato deserto, una proroga e un rinnovo con trattativa privata. Ma rappresenterà un punto di svolta.
Con la Banca Generale infatti, per la prima volta, l'Elba si trovò a fare i conti col grande capitalismo. Che entrò nel mondo delle miniere elbano sfondando la porta, con la sua faccia più truce: il puro profitto a scapito dei lavoratori. Sarà l'inizio di una fase che durerà circa mezzo secolo, che si abbatterà di lì a poco anche su Portoferraio, con la nascita degli altiforni, e che temprerà la coscienza di classe degli elbani, anche a prezzo di scontri durissimi. Non è un caso se proprio in quegli anni '80 inizieranno le prime lotte operaie.
Che la Banca Generale ragionasse in ottica di soli utili, a tutto svantaggio dei lavoratori, si capì fin da subito: fu annunciato che dal 1° gennaio 1882 le paghe dei cavatori venivano sforbiciate addirittura fino al 40%. Si proclamò così il primo grande sciopero della storia elbana, che ebbe eco anche sulla stampa nazionale, certamente per l'importanza delle miniere nel quadro economico italiano, ma anche per l'organizzazione e la combattività che la classe operaia isolana stavano mostrando alla nazione. È infatti il Messaggero a narrarne la cronaca: “Gli operai delle miniere dell'isola d'Elba si sono messi in sciopero da parecchi giorni, e il numero degli scioperanti è tale che si dovettero mandar sul luogo rinforzi di truppe per timore di disordini. E il motivo dello sciopero? La Banca Generale, che ha assunto l'esercizio di quella miniera, licenziò alcuni operai che avevano oltre 40 anni di servizio e ridusse la paga a tutti gli altri. Come se ciò non bastasse, la Banca Generale domandò ed ottenne dal governo la facoltà di valersi del lavoro dei galeotti, per cui i liberi operai, vedendosi poco a poco togliere il pane di bocca, cominciarono a protestare prima e a mettersi in sciopero dopo”.
È su questo ultimo aspetto che voglio incentrare il capitolo. Infatti per la prima volta i gestori delle miniere applicarono quella forma di infame ricatto che rimarrà in vigore per molti anni: l'impiego a bassissimo costo e scarsi diritti di carcerati e domiciliati coatti. Sui secondi mi soffermerò nel prossimo capitolo, perché è necessario scindere la questione. Di comune c'è solo che questo subdolo escamotage causerà non pochi motivi di proteste e scioperi, ma soprattutto risentimenti sociali gravissimi.
All'Elba in quegli anni esistevano due bagni penali, a Portoferraio e Longone, e in entrambi furono approvate misure di lavori forzati: per i galeotti della Linguella nelle saline portoferraiesi, per i forzati longonesi nelle miniere. Ma se nel primo caso gli effetti sociali furono limitati, perché i reclusi della Linguella erano pochi e Portoferraio viveva anche di saline; nel secondo fu devastante, perché i detenuti di Longone erano numerosi e l'Elba orientale viveva soprattutto di miniere. Per ogni carcerato impiegato in miniera, una famiglia di cavatore disoccupato era pericolosamente vicina alla rovina.
Ma la disperazione non era sentita solo dagli elbani. Anche i carcerati dovevano vivere un dramma. Se i cavatori avevano comunque una vita libera, uno straccio di dignità, una manciata di diritti; i carcerati erano in uno stato di morte civile. Se i protagonisti di questa epica sono ultimi, per i galeotti non c'era neanche una classificazione nella società. Gli operai, sebbene come massa sfocata, erano ancora considerati dalla borghesia. Non solo: un macchinista come Ezio Luperini o un muratore come Frediano Frediani, grazie alla loro cultura da autodidatti, potevano portare la loro testimonianza, ritagliarsi un ruolo di primo piano nella vita pubblica, ricoprendo cariche di sindaco. I carcerati no: per la società benpensante non esistevano nemmeno, non potevano aver diritto di parola o testimonianza, men che meno di cittadinanza. Per questo possiamo solo immaginare la loro esistenza: la loro condanna era anche quella di non avere una voce.
Erano condannati a un lavoro massacrante, senza paga, orario, diritto o rispetto. Probabilmente doveva essere un'offesa alla loro dignità anche quando venivano portati a piedi alle cave, con le catene, davanti agli sguardi dei liberi. Sguardi pietosi, nella migliore delle ipotesi, astiosi, nella peggiore.
La situazione si fece tesa a fine 1887, quando le miniere andarono in sovrapproduzione, proprio a causa dell'impiego sproporzionato di carcerati, spingendo il governo a ordinare alla Banca Generale di cessare l'attività in alcune cave. A Rio Marina gli animi si surriscaldarono, tanto che i galeotti dovettero essere riportati al penitenziario di Longone. La sospensione del lavoro durò fino al febbraio 1889, creando mesi di esasperazione tra gli operai elbani, ormai in gran parte disoccupati, tanto che per non lasciarli sulla strada, la società dovette ricorrere all'impiego a settimane alterne.
Anche la borghesia elbana prese decisa posizione contro i padroni delle miniere (cosa che farà sempre meno dal decennio successivo, se non addirittura arriverà a essere contigua con il padronato). Soprattutto il Corriere dell'Elba si fece portavoce delle rimostranze operaie con un articolo di fuoco: “E sapete si tratta nientemeno che di crepare di fame, né più né meno. Avrete sentito a qual punto vorrebbero ridotto il salario giornaliero dei lavoranti alle miniere da questi buoni signori, a L. 1 e 20 centesimi al giorno! […] Questi bravi signori avrebbero trovato proprio il mezzo di sciogliere la questione sociale alle spiccie. […] Ma che sarà se la Direzione Generale niega di scendere a più mite consiglio e non abbandona la sfrenata cupidigia di ammassare denaro spremuto dal sudore di tanti padri di famiglia? […] repugnamo a credere che tali uomini possono un solo istante riposare sulla folle idea che i mezzi strettamente necessari al mantenimento delle famiglie del libero operaio siano parificati a quelli del galeotto”.
Le proteste degli operai ebbero un loro peso, tanto da essere in parte recepite: infatti poche settimane dopo, il 20 febbraio 1888, quando venne stipulato un nuovo capitolato d'appalto, questa volta con l'elbano Giuseppe Tonietti, fu apposto l'articolo 15, che obbligava l'affittuario a non impiegare più di un terzo del numero dei lavoratori in galeotti del carcere di Portolongone.
Tuttavia, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la società elbana rimase per molti anni in un clima sospeso di guerra fra poveri, e la questione dell'impiego dei carcerati e i domiciliati coatti aveva ormai incancrenito gli animi.
Andrea Galassi