Un'altra differenza che le ultime generazioni di cavatori rimarcano è quella sulle migliorate condizioni di sicurezza sul lavoro rispetto a padri e nonni. Un ex minatore del Ginevro mi mostrava delle foto dei suoi lavori in galleria, e le dotazioni di sicurezza erano decisamente di ottimo livello. Inoltre, visitando una miniera fino a una trentina d'anni fa, le strutture abbandonate ma ancora in buone condizioni, a differenza di oggi, mostravano avvisi e segnaletica di sicurezza chiarissimi; impianti efficienti di arresto di emergenza, allarmi e segnalatori di pericolo in ogni nastro trasportatore, discenderia, frantoio e quant'altro. Per quanto ogni minatore ricordi almeno un incidente mortale in cava, ne ho potuti contare non più di quanti se ne conti sulle dita di una mano, nell'ultimo mezzo secolo circa di attività.
E nel passato come andavano le cose? Le condizioni di sicurezza erano peggiori? Sì. Ma c'è un ma.
Una statistica riporta che nel periodo 1860-1893, si contano 177 incidenti, dei quali 9 mortali. Anche se sono numeri alti (circa 5 incidenti all'anno, di cui uno mortale ogni 3 anni e mezzo, in media) in confronto ai non certo esaltanti standard attuali, si nota come le condizioni di sicurezza delle miniere elbane siano migliori di quelle di altre realtà minerarie italiane. Le ragioni probabilmente sono da ricercare nei fattori ambientali. Primo su tutti il fatto che in grandissima parte l'escavazione industriale elbana avveniva a cielo aperto. Una frana o un cedimento in una galleria, come nel caso delle solfatare siciliane o delle miniere del monte Amiata, la trasformavano in una trappola mortale, e i soccorsi erano estremamente difficoltosi. Un aspetto significativo è il fatto che in tali miniere potevano avvenire autentiche stragi di lavoratori, mentre all'Elba per fortuna non si è mai verificato un evento così tragico.
Inoltre i fronti di scavo elbani erano più modesti rispetto a grosse cave del continente, come quelle del marmo di Carrara: mai un gradone superava i 7/8 metri di altezza. I gradoni poi erano quasi sempre formati da grossi massi misti a terra: una frana poteva essere drammatica, certo, ma lontanamente meno pericolosa del distacco di blocchi di marmo di tonnellate.
Forse c'è anche un altro aspetto che influiva positivamente. Secondo alcuni anziani, i padri e i nonni cavatori raccontavano che se le regole e le dotazioni di sicurezza erano scarse, quelle poche venivano fatte rispettare severamente. Sempre secondo queste testimonianze, la direzione era molto rigida con i sorveglianti, sanzionandoli con multe salate se non facevano rispettare le condizioni di sicurezza. E, a cascata, i sorveglianti redarguivano duramente gli operai irrispettosi di esse.
Tutti i lavori di miniera potevano essere fatali: la statistica già citata dice che gli incidenti avvenivano soprattutto nei fronti di scavo, per frane o sfaldamenti. In misura minore, ma pur sempre rischiosa, a causa di mine. Questa cosa non stupisce: Bolivio Palmieri mi diceva che conosceva operai, già maturi quando lui era ragazzo, anche cavatori in pensione, con un'abilità nel maneggiare la polvere da mina e preparare inneschi, da far invidia a un artificiere.
Molto pericoloso era il lavoro alla tramoggia, soprattutto se l'operaio doveva calarcisi dentro per smuovere il minerale che rimaneva incastrato e non poteva defluire dalla bocca. Questa operazione era effettuata con un forcone (era detta appunto sforconatura), e l'operaio doveva entrare nella tramoggia “legato”. Non è ben chiaro cosa si intendesse con questa espressione: forse a un capo di una corda c'era una imbracatura che l'operaio indossava, mentre l'altro capo era assicurato in cima alla tramoggia, in modo da garantire stabilità in caso di perdita di equilibrio su una superficie così instabile, o un compagno potesse tirarlo su in caso di incidente. Se per qualsiasi ragione chi svuotava il carrello o il camion non si avvedeva della presenza dell'operaio all'interno, questi si vedeva arrivare addosso quintali di sassi.
Anche il lavoro di elettricista aveva la sua dose di rischio, soprattutto negli interventi ai tralicci. L'operaio saliva per alcuni metri quasi senza protezione: bastava una presa mancata e si precipitava. È l'incidente che capitò allo stesso Bolivio, costringendolo a mesi di ospedale.
Ma in passato esistevano anche infortuni autoinflitti. Molti operai giovani a un certo punto pensavano a mettere su famiglia. Ma lo stipendio magro e la miseria generale di genitori e amici potevano essere un serio ostacolo al matrimonio. Così per portare in maniera dignitosa la fidanzata all'altare si pensava a un sacrificio. Molto doloroso. Constava solo la scelta di un dito della mano, di solito l'anulare o il mignolo. Ma andava perso per sempre. Perché andava amputato. Senza anestesia, solo stringendo i denti e aiutandosi con una buona dose di vino. Chi ci era già passato dava un consiglio: appoggialo alla rotaia, io ti faccio passà sopra il carello. Il dolore doveva essere inimmaginabile. Forse, come in un racconto di Gorkij, qualcuno dava a quel dito una degna sepoltura.
Eccolo, di nuovo il corpo del cavatore che ritorna nella nostra storia, e che gli impone una scelta estrema, sacrificante, di sopravvivenza. Con essa e quei quattro soldi della cassa infortuni il matrimonio era assicurato.
E poi non c'erano solo gli eventi traumatici. C'era anche una malattia subdola, che ti corrodeva la fibra con pazienza ma implacabile costanza, fino a che non te la ritrovavi irrimediabilmente addosso. La silicosi. Purtroppo ne ho conosciuti cavatori in pensione, piagati da questa marchiatura, rassegnati a portarsela fino alla tomba.
Il racconto di questi drammi, che spesso spezzavano una vita o la segnavano per sempre, sono raccontati con commozione, anche perché l'ambiente di miniera era spesso quello di una grossa famiglia. Eppure questi campioni della sofferenza riuscivano anche a riderci su, da elbanacci veraci quali erano.
E appunto per sdrammatizzare, voglio concludere questo capitolo così cupo, con un aneddoto che illustra benissimo lo spirito dissacrante dei cavatori sulla morte, e fa da ponte perfetto per il prossimo capitolo, che sarà di carattere decisamente più leggero. Lo premetto subito: secondo me è più una bella trovata che un episodio realmente accaduto, anche se mi sono stati fatti nomi e cognomi. Ma lo ritengo comunque illustrativo.
La mamma di un cavatore era ormai arrivata alla fine. Sul letto di morte sembrava che una crisi segnasse la sua ora. Così, due conoscenti erano corsi in miniera per avvertire il figlio. Questi aveva mollato il guaglione (la zappa bidente), ed era corso al capezzale della povera donna. Che però nel frattempo si era ripresa. Il giorno dopo si ripresenta la stessa scena, solo che la donna era veramente passata tra i più. I due conoscenti erano nuovamente tornati in miniera per avvertire l'uomo. Questi, memore della faticosa corsa del giorno prima, alza minacciosamente il guaglione e fa: “Oh, io vengo, eh! Ma se 'unn'è morta...”
Andrea Galassi