Quando qualche mese fa scrivevo la storia del turismo elbano, esigenze di sintesi imponevano di trattare l'argomento con una panoramica generale. Ma sarebbe più corretto parlare di storie del turismo: ogni località dell'isola ha avuto un'evoluzione turistica propria, e molto diversa l'una dall'altra. Talvolta anche all'interno dello stesso comune: la storia turistica di Procchio è molto diversa da quella di Chiessi; o quella di Cavo da quella di Rio Marina.
Inoltre non accennavo all'intrecciarsi delle vicende turistiche con la chiusura delle miniere, forse l'evento più significativo del secondo Novecento elbano. Siccome sono due questioni che entrano in gioco nella vita dei cavatori, è questa la sede giusta per trattarle.
La chiusura delle miniere fu vissuta dai quattro comuni minerari in maniera radicalmente diversa, e mostra le due facce della medaglia. C'è quella dei comuni di Capoliveri e Porto Azzurro, che non sentirono alcuna crisi, in quanto già perfettemente integrati nell'economia turistica. E c'è quella dei centri riesi, che invece vissero una crisi e una difficile riconversione. In questo capitolo vedremo la prima faccia della medaglia, perché la seconda richiede un capitolo di diverso segno e un'analisi molto più complessa.
Partiamo da Porto Azzurro. Dei quattro comuni minerari, è il minore, in quanto l'escavazione è avvenuta in due cantieri molto piccoli, Capo Bianco e Terranera, che hanno costituito al massimo il 10% del prodotto totale elbano. Inoltre la componente operaia del paese, per quanto riunita in una ben organizzata e combattiva lega, era piccola: Longone viveva anche sul lavoro nel penitenziario, sulle attività di mare e sull'agricoltura.
Altro aspetto importante: l'estrazione del minerale dai suddetti cantieri terminò molto prima di quella delle miniere di Rio e Capoliveri. A Capo Bianco, esaurita prima della seconda guerra mondiale, l'area fu dismessa dalla Ferromin e ceduta a una società che recuperava e stoccava esplosivi e residuati bellici. A Terranera, nel 1949-50, subentrò la società Montecatini, che iniziò a fare dei saggi per trovare vene di pirite. Ma con scarsi risultati, tanto che furono abbandonati nel 1960. I lavori furono ripresi dalla Ferromin, ma ormai senza troppo impegno fino al 1970.
L'area mineraria longonese era non solo modesta, ma anche defilata dalle località dove si stava sviluppando il turismo. Anzi, l'abbandono di Terranera si trasformò addirittura in una risorsa: gli scavi avevano regalato alla promozione turistica un'attrattiva, quel laghetto che diventerà uno dei luoghi più pubblicizzati dell'Elba. Inoltre la chiusura delle sue miniere coincise quasi subito con l'inizio del turismo, che Porto Azzurro seppe cogliere fin dall'immediato dopoguerra. Per tutte queste ragioni il passaggio da un'economia all'altra fu praticamente indolore.
Con la fine della guerra, per i cavatori capoliveresi fu invece vitale una riattivazione delle cave, perché il paese viveva soprattutto di questa risorsa. La lenta ripresa a pieno regime fu quindi fondamentale per assicurare la pagnotta a non pochi capoliveresi. Ma questo comune poteva giocarsi le sue carte anche in campo turistico. Il suo sviluppo costiero e la sua felice posizione geografica erano formidabili come attrazioni per i vacanzieri. Nel giro di qualche anno raggiunse e poi superò tutte quelle realtà turistiche, come Marina di Campo e Procchio, che già nell'immediato dopoguerra erano partite con l'acceleratore pigiato.
Si venne a creare dunque una situazione unica all'Elba: le famiglie capoliveresi erano in gran parte composte da uomini impiegati in miniera e mogli e figli nel campo turistico. A differenza del passato, quando per decenni i salari dei cavatori erano praticamente l'unica (magra) fonte di sostentamento, adesso tutta la famiglia guadagnava. E quindi si arricchiva. I soldi permettevano a mogli e figli in alcuni casi di lasciare il lavoro dipendente stagionale in ristoranti e alberghi, per intraprendere un'attività in proprio. Diversi cavatori mi testimoniavano che le ore libere dal lavoro in miniera le passavano, specialmente in estate, a dare una mano all'attività della moglie: chi le faceva dei servizi agli appartamenti in affitto, chi la sera l'aiutava al ristorante o al negozio.
Non solo. Esattamente come i padri e i nonni, anche molti dell'ultima generazione di cavatori capoliveresi passavano ogni giorno le ore libere nelle loro campagne di proprietà. Ma questa volta non per coltivare l'orto o la vigna, bensì per costruirsi la casetta, e molto più spesso strutture da affittare. Con tutti quegli aspetti discutibili, analizzati in un capitolo sulla storia del turismo, a cui rimando. Un cavatore mi diceva che si presentava all'inizio turno in miniera già in tuta da lavoro, dato che l'aveva usata fino a poco prima nei suoi lavori privati.
Altro aspetto non secondario. Le miniere capoliveresi erano ampie, ma ben poca cosa rispetto all'estensione totale del comune. Inoltre erano in zone fuori mano, lontanissime dalle località che andavano sviluppandosi turisticamente. L'esproprio del demanio minerario fu dunque irrisorio e poco rilevante ai fini del nuovo scenario turistico, a differenza di Rio Marina, come vedremo nel prossimo capitolo.
Quando le miniere capoliveresi chiusero, anche i loro operai protestarono energicamente come i compagni riesi. Ma la condizione sociale ed economica delle due aree era ben differente. Capoliveri era ormai la capitale turistica dell'Elba, e le miniere erano diventate un'economia secondaria. Condizione curiosa, se vogliamo, dato che nel secondo Novecento per la prima volta sarà proprio il polo minerario capoliverese a superare per importanza e produzione quello riese: a detta di molti la miniera in galleria del Ginevro era addirittura uno degli impianti estrattivi più avanzati d'Europa. Per queste ragioni il paese non sprofondò in una crisi, e il passaggio sarà anche qui praticamente indolore.
Per sintetizzare, si può dire che gli ex cavatori longonesi e capoliveresi erano usciti dalla condizione epica di ultimi, ed entrati in quella confortevole di borghesi.
Andrea Galassi