Quando morì il mi’ Babbo Veleno, 50 anni fa, la miseria che bussava ogni giorno alla nostra porta la sfondò con un colpo di maglio e le nostre vite di orfani, sulle spalle di una vedova già da troppi anni indaffarata ad arrabattarsi con una vita magra, furono esposte a un freddo inverno di povertà.
Ad alleviarla un po’ erano le borse della spesa comprate una volta alla settimana nella bottega di Bibo Sardi e che ci lasciavano fuori da quella porta rattoppata – senza nemmeno bussare - i compagni del mi’ babbo, i comunisti, dei quali presto sarei diventato compagno. Anche alla sterminata famiglia dei Cocchia, stranamente, spesso avanzava qualcosa di buono, soprattutto per le feste comandate, quando ci arrivava quello che oggi chiameremmo un catering di cose prelibate dove i piatti elbani si mescolavano a quelli napoletani.
Ma a salvarci davvero dalla pasta all’olio di sansa e di oliva a mezzogiorno e dal caffellatte la sera – e a volte da qualche giro di tavolino - era soprattutto una giovane donna, non ancora trentenne, piccola e bella, con profondi occhi magnetici che con la maturità avrebbe segnato con un trucco da zingara: Teresa, Teresella, come l’ha sempre chiamata la mi’ mamma Jole, che era di 15 anni più grande di Teresa ma che con lei condivideva la passione per le sigarette, le battute e il ballo (che con Veleno Jole non riuscì mai più a fare).
Fino a che non arrivò l’estate con i signori e i turisti per guadagnare qualche soldo, Teresella ci portò praticamente ogni giorno, per mesi, qualcosa da mangiare, o allungò a Jole qualche migliaio di lire e qualche agognata sigaretta.
Quella marcianese spavalda, indipendente e con l’aria da gitana fu la nostra salvezza e ebbe indietro solo qualche sorriso e una chiacchierata con Jole mentre si dividevano una sigaretta.
Qualche tempo fa, una delle ultime volte che Jole e Teresella si sono incontrate, con la mi’ mamma sul ballatoio e lei che la guardava sorridente da via San Francesco, a 30 metri da quella che era diventata la sua casa, io sbucai dalla volta tra la fonte e la chiesa, mi fermai a chiacchierare con le due amiche e, tra una battuta e l’altra, dissi a Teresella quello che avrei dovuto dirle tanto tempo prima: non ci eravamo mai scordati di quell’inverno, non ci eravamo mai scordati della sua bontà. Lei si schernì, quasi infastidita, imbarazzata, cambiò discorso: «E’ acqua passata. Ho fatto quello che bisognava fare». E io le dissi che non bisogna mai scordarsi di chi fa quello che non è obbligato a fare e che però lo fa, di chi non chiede nemmeno e dà a chi ha meno. Io non me lo sarei mai scordato.
Le altre poche volte che ci siamo incontrati, prima che all’eterna sigaretta di Teresella si sostituisse l’ossigeno, mentre la salutavo mi lanciava uno sguardo eloquente, come un’esortazione muta a non ritirare fuori quella storia.
Ora che Teresella se n’è andata, non mi sono scordato e le dico grazie di cuore. Grazie per la donna generosa e schietta che è sempre stata.
Ovunque sia diretta, sono certo troverà Jole che la aspetta con una sigaretta accesa e forse balleranno finalmente insieme nel dancing paradiso, con gli angeli e qualche diavolo imbucato, tra nuvole di fumo che non sono incenso.
Umberto Mazzantini