La pesca del tonno e delle acciughe è stata sin dalla fondazione della città di Cosimo attività economica per gli abitanti di Cosmopoli insieme a quella del corallo che i pescatori di Marciana chiamavano “sponge di mare impietrite“ (spugne di mare impietrite).
Sin dal tempo di Cosimo I dei medici il corallo era oggetto di commercio:
”La vasta rete dei commerci fiorentini intelligentemente sviluppata da Cosimo I, oltre le più importanti piazze d’Europa includeva anche partecipazioni al ricavato della pesca di coralli a Tabarca, praticata dai genovesi, solitamente data in appalto al Vicerè di Sicilia. I coralli venivano poi lavorati a Pisa da artigiani fatti venire dalla Sicilia, in seguito la lavorazione verrà fatta a Livorno e gestita dagli ebrei”.
(Cfr pg 65 di “Galere granducali e usi marittimi” C. Rospigliosi, Editrice l’isola, 1998)
Livorno nel secolo nel secolo XVII diventa polo di attrazione per i compratori di corallo grezzo e lavorato. Con Pisa consolidò nel secolo XVIII il primato nella produzione artistica di opere in corallo (croci, sculture, gioielli). Se Livorno ebbe successo nel commercio di corallo lo deve anche alla pesca in loco: pare che il corallo fosse particolarmente eccellente in qualità quello del triangolo Giglio, Gorgona Montenero.
Il principato di Piombino, compreso in questo triangolo, ne traeva profitto dalla raccolta e vendita. Lucia Paoli studiando documenti dell’archivio storico nazionale di Madrid scrive che al tempo del principe di Piombino, Giovan Battista Ludovisi, la pesca del corallo aiutò a rimettere a posto le finanze dissestate del principato per il commercio che il principe fece con il re di Spagna. Tra questi documenti Paoli ha rintracciato una cartina relativa al “triangolo del corallo” dove viene indicata la secca di corallo vicino all’isola del Giglio (vedi foto di copertina).
Nel settecento la ricerca e la vendita di ”oro rosso”, il corallo, era molto praticata nel mare dell’Elba e di Corsica. Giovanni Vincenzo Coresi del Bruno, governatore di Portoferraio dal 1730 al 1740, ne parla nel suo manoscritto
“Nell’anno 1740 per far la pesca del corallo nell’acque di Sardegna e della Corsica erano unite 350 filughe napoletane, Padrone…che mi regalò una ( ) di corallo, nativo della Torre del Greco, aveva sotto il suo comando 57 filughe. Le altre erano ripartite ancor esse con i loro comandanti, e disse che tutta la spesa di quest’anno ascendeva a pezze diciottomila e che la pesca fatta ascendeva in circa trecentomila pezze di modo che l’utile ara d’incirca a dodicimila pezze...”
(Cfr. pg 52 di “Zibaldone di memorie” Vincenzo Coresi del Bruno manoscritto. Biblioteca comunale di Portoferraio, copia dattiloscritta dell’originale conservata nella biblioteca marucelliana di Firenze)
La pesca del corallo avveniva in questo modo:
“ …fra l’Elba e l’isola di Corsica, vi sono alcuni luoghi che chiamano secche di corallo, che si pesca con una sorta curiosissima fatta di certa fune di canape poco torta. Acciò calandola al fondo del mare con alcuni sassi di contrappeso ove trova il corallo si attacca alle rame e potendosi più aviluppare, viene a forza svèlto e tirato sopra le barche in rami e pezzi, lo trasportano in diverse parti dell’Europa”
(Cfr pg. 164 “Zibaldone di memorie” V Coresi del Bruno idem come sopra)
Coresi del Bruno scrive anche quale tipo di corallo era pescato nella acque dell’Elba
“---Coralli rossi e bianchi, madrepore, astroyti e cerebriti ed altri simili si pescano nel mare sotto Marciana e li pescatori di quel luogo li chiamano sponge di mare impietrite“
(Cfr pg 76 ”Zibaldone di memorie” V Coresi del Bruno idem come sopra)
Questa la quantità di pescato corallino nel 1740 riferita dal governatore di Portoferraio:
“…la pesca di quest’anno 1740 di corallo fine cioè della migliore qualità veniva computato a ragione di libbre trentacinque per filuga e del corallo comune in circa in circa a libbre cento per filuga.
In altri anni il corallo fine e della migliore qualità è stato pescato a ragione di libbre cento per filuga e del corallo comune in maggior quantità a proporzione e che pescandosi ogn’anno ne medesimi luoghi si trova minore quantità di corallo”
(Cfr pg 52 “Zibaldone di memorie” V Coresi del Bruno idem come sopra)
La pesca era permessa solo dopo che il padrone della filuga aveva ottenuto una licenza da chi deteneva la giurisdizione delle acque dove avviene la raccolta del corallo e pagato una gabella sul pescato. Accadeva anche che tali licenze fossero concesse in eccesso a barche straniere da parte dello stato che aveva giurisdizione al rilascio talchè determinava la protesta dei locali.
Le “coralline” così erano chiamate le felughe che andavano a pescare corallo dovevano stare molto attente a trovarsi nel tratto di mare in cui avevano permesso di pescare perché in caso di sconfinamento potevano essere oggetto di sanzioni dello stato che vi aveva giurisdizione.
Nel 1732 nel mare intorno a Portoferraio, sotto il governo di Coresi del Bruno furono avvistate nove felughe napoletane nella acque antistanti “Cavo Bianco di fuora” (quello che oggi si chiama Capo Bianco presso la spiaggia della Padulella ,essendo il “Cavo Bianco di dentro” quello dentro la rada che divideva il golfo di Portoferraio dalle saline granducali di S. Rocco prima che fossero colmate dalla loppa dello stabilimento siderurgico), mare sotto la giurisdizione del granducato di Toscana che inviò sul posto il provveditore Natale Giuseppe Bichi per fare un disegno, prendere le misure e verificare se le felughe erano in acque granducali.
Marcello Camici
Nelle foto:
- Triangolo del corallo nella mappa dell’arcipelago toscano con segnata la secca dei coralli vicino all’isola del Giglio. Archivio storico nazionale di Madrid. Ripreso da Lucia Paoli in “Lo Scoglio. Elba, ieri, oggi, domani” 2014
- Dimostrazione della distanza dal terreno di S.A.R. nell’Elba alle filughe che pescavano coralli sotto dì 13,14 e 15 maggio 1732 fatta con buoni ordini da Natalgiuseppe Bichi fiorentino” Ripreso in pg 60 di “I confini di Cosmopoli”. Fabrizio Fiaschi, CD&V editore. Firenze. 2019