Mario (di Sesto) Segnini era tornato a Marciana Marina dopo aver lavorato all’Italsider a Piombino, in pensionamento anticipato ma non tanto da fargli scansare un soprannome obbligatorio e ovvio, il Piombinese, che, visto che di Piombinesi ce n’erano altri, veniva preceduto dal nome e usato come una sorta di cognome: Mario il Piombinese.
Da Piombino Mario, che era un uomo con un senso dell’ironia e dell’umorismo quasi britannico e surreale, si era portato dietro la leggenda di ricevere svariate pensioni, cosa che lui non smentiva ma che, quando gli capitava, per prendere in giro chi ne sapeva più di lui sulle pensioni che prendeva lui, rilanciava al rialzo. Una volta gli sentii dire a uno che diceva che di pensioni ne prendeva 5 che si sbagliava: in realtà ne prendeva 7, e gliele elencò, come fossero vere, inventandole lì per lì, in modo cosi convincente che il suo interlocutore rimase a bocca aperta, mentre lui, voltategli le spalle, spingendo la sua bicicletta sulla quale l’ho visto salire rare volte, si incamminava verso l’Atore, con un muto sorriso ironico stampato in faccia.
In realtà quella bicicletta aveva un’altra funzione: serviva come una specie di paranza con uno strascico invisibile, a raccogliere per strada chiacchiere, discorsi, accuse, minchiate politiche e umane.
Sì, perché Mario il Piombinese aveva l’animo dell’antropologo, metteva insieme tutto e faceva una diagnosi socio-politica, ricostruiva l’epoca, il momento, gli umori. Forse, da uomo intelligente e curioso quale era, lo aveva cominciato a fare quando era ritornato da Piombino, trovandosi a vivere in un Paese mutato velocemente dal turismo, dove la gente aveva cambiato vestiti, vita e cervello. Forse aveva cominciato a farlo quando da quel paese di contadini e pescatori, attraversando un canale marino, si era ritrovato a vivere in una città industriale, operaia, comunista.
Forse la sua ricerca da ironico antropologo dilettante e da pescatore di pensieri era cominciata prima dalla zappa e dal pesce e poi dall’acciaio fuso. A volte sembrava un entomologo, o un bimbo curioso, che studia un formicaio dopo aver messo un forasacco nel foro di entrata.
Quel che so è che Mario il Piombinese, con i suoi occhiali eterni e il suo vestire spesso elegante, mai trasandato, aveva un fiuto politico di prim’ordine e una capacità da radiologo di decifrare in profondità la natura umana. Una lastra alla volta.
E’ probabilmente per questo che aveva un’amicizia inossidabile con Remo Adriani, che fu per lunghi anni il capo dei comunisti marinesi, pur non avendo Mario mai preso la tessera del PCI di Marciana Marina, anche se per i comunisti votava.
Mi piaceva molto parlare con Mario, e a lui piaceva parlare con me. Mi piaceva quella sua voce roca, quella sua calma ironia, quella sorta di fatalismo consapevole che non era rinuncia, quel suo decifrare le persone, quel suo avere fiducia nei giovani, di capire che i giovani non ripetono quel che fanno i vecchi, che i ragazzi fanno cose ed errori nuovi. Mi piaceva quella sua capacità minuziosa di mettere insieme episodi, parole, fatti per farne un quadro plausibile del vivere, della politica e degli interessi che la muovevano e che la muovono. Era come se dopo ogni strascico ricucisse la rete, come un sarto pescatore che sa che niente è immutabile ma che poco cambia e cambia poco alla volta. Soprattutto a La Marina.
Fino a che è stato in Vicinato, dove saliva le scale ripide che lo portavano a casa dalla moglie che lo ha lasciato troppo presto, a volte, per una strana coincidenza, ci trovavamo spesso dove i pilastri e le catene dividono Via Garibaldi da Via dei Malcontenti. E lui mi raccontava le impressioni dell’ultimo strascico di parole, favate e opinioni, pesce per pesce, tirandoli fuori ancora guizzanti dallo strascico invisibile della sua bicicletta, dividendoli per specie. Io lo stavo a sentire, con la sua voce roca e che con l’età diventava sempre più fioca, a volte lo contraddicevo, gli dicevo che non era proprio così come diceva lui … ma alla fine, passato del tempo, dopo aver soppesato le cose e gli uomini, aveva quasi sempre ragione lui.
Poi Mario cominciò a risalire sempre più lentamente con la sua bicicletta, che ormai serviva solo da appoggio per uno strascico sempre più svogliato, quasi abitudinario, via San Francesco e via del Ruotone per andare dalla figliola. E allora spesso ci trovavamo, come per un nuovo caso del destino, a parlare di politica e del nostro Paese tra il terrazzo di granito di Jole e la volta che buca le case e se, pioveva o il sole era troppo forte, era l’occasione per passare un po’ più di tempo al riparo sotto quella caverna stradale.
Erano, fino all’ultimo, lezioni di ironia e leggerezza, innervate di quella che una volta si chiamava coscienza di classe. Cose quasi sparite. Cose sparite tra l’Atore e Risecco da quando Mario il Piombinese non pesca più parole e fatti con lo strascico invisibile della sua bicicletta.
Umberto Mazzantini