Arriverà il giorno in cui non ci sarà più bisogno dell’8 marzo, per ricordare la condizione femminile nel mondo? Vorrà dire che sarà stata raggiunta la parità di genere, che tutti i soffitti di cristallo saranno stati infranti, che nessuna donna sarà uccisa dal suo partner o ex partner, che nessun burqa la renderà un fantasma e nessun hijab la umilierà. Utopia, sogno ad occhi aperti. Che forse nemmeno le mie nipoti vedranno.
Nel frattempo, come ogni anno, è obbligo morale riflettere sui problemi o i drammi “dell’altra metà del cielo”. Nel mondo occidentale, il cammino delle donne, pur faticoso e soggetto a continui inciampi, procede, denunciando col “Me too” gli abusi perpetrati nel tempo ed aprendo al mondo femminile spazi e attività desuete, ma la società consumistica continua, sebbene con minore frequenza di prima, a proporre immagini del corpo delle donne come “merce”, abbinandolo, specie nella pubblicità, al prodotto da vendere, mentre i pregiudizi misogini persistono, soprattutto nelle generazioni meno giovani.
In Italia, poi, assistiamo sgomenti allo stillicidio dei femminicidi, malgrado la diminuzione generale degli omicidi e dei crimini, a dimostrazione di un malessere nel rapporto con l’altro sesso, trasversale a ogni ceto sociale e a ogni livello culturale: si uccide per negare l’indipendenza, la libertà, l’autodeterminazione della partner, a costo di un futuro tra le sbarre o di un suicidio o della rovina dei figli.
Se dal nostro “primo mondo”, allarghiamo lo sguardo agli orizzonti africani e asiatici, ci manca il respiro. La piaga delle MGF, le mutilazioni genitali femminili, coinvolge ancora ogni anno in Africa tre milioni di bambine, soprattutto in Somalia, Gibuti, Eritrea, Egitto, ed è praticata in percentuali inferiori in molti altri Paesi, compresi quelli della fascia sud occidentale dell’Asia. Sembra che attualmente ci siano nel mondo centotrenta milioni di donne che hanno subito questa pratica orrenda, dolorosissima, e difficile da contrastare, che tende al controllo sociale e culturale del corpo femminile, nell’intenzione di crescere giovani donne remissive e sottomesse, però procurando loro danni fisici e psicologici permanenti.
Ma forse oggi i due posti al mondo più problematici per quello che Simone de Beauvoir chiamava “il secondo sesso” sono l’Iran e l’Afghanistan: nel primo si può morire, come Masha Hamini nel settembre scorso, per una ciocca di capelli fuori posto, se la polizia morale, piuttosto di fare “un corso accelerato su come si indossa correttamente il velo”, della durata di un’ora, come aveva assicurato al fratello della povera ragazza, l’arresta, la riempie di botte, le provoca un’emorragia cerebrale e quindi la morte.
Il secondo è davvero un “buco nero”, una prigione le cui sbarre sono le mura di casa, in cui i Talebani pretendono di rinchiudere ragazze e donne, allontanandole dalle scuole superiori, dalle università, da ogni attività lavorativa: proibito studiare, perché una testa istruita è meno manipolabile, proibito svolgere una qualsiasi attività, anche nelle associazioni di volontariato, proibito sostare nei parchi, cantare, danzare, scrivere, pubblicare, dipingere, proibito “provocare” i padroni del proprio destino anche con il suono della voce o con uno sguardo. E allora alcune di loro, le più coraggiose, si organizzano: fingono di cucire e ricamare e invece studiano segretamente; aderiscono ad una “rete femminile clandestina” che combatte la discriminazione e poi scrivono e diffondono i landays, una forma originale, collettiva e anonima di brevissime poesie – due versi di nove e tredici sillabe, ma la metrica è un optional – che, simili a “serpentelli velenosi”, questo è il significato del loro nome, denunciano violenze e soprusi subiti.
Eleonora De Pascalis, del Cisda (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane) ha dedicato a questa forma di poesia la sua tesi, intitolandola “Come ginestre nel deserto, la speranza augurale delle donne afghane nella tradizione poetica”.
Eccone qualche esempio:
“Ordini stupidamente di tacere/non capisci che la voce della verità è più forte del tuo raglio//”
“Non è manipolando le frasi dei Profeti/che la tua ignoranza diverrà verità//”
“Il mio amato vuole trattenere la mia lingua nella sua bocca/non per diletto di essa, ma per stabilire i suoi costanti diritti su di me//”.
Insomma, che dire? La speranza di un miglioramento, di un cammino meno stancante e problematico ci deve sorreggere. Però, intanto, per rispetto alle sorelle vicine e lontane in sofferenza, non chiamiamola “festa”.
Per tutte le donne ammazzate/picchiate, maltrattate;/per tutte le donne e bambine/abusate vendute mutilate/contro la loro volontà, sposate/; per tutte le umiliazioni /ieri e oggi subite/vi prego, non chiamiamola FESTA:/è GIORNATA, giornata d’orgoglio/di rabbia/di lutto e di lotta//.
Maria Gisella Catuogno
Foto di Michela Pellegrini