L'Elba “non è divisa in partiti politici, ma in fazioni personali, le quali nelle lotte elettorali si combattono con accanimento e metodi che hanno dell'antico, e senza nemmeno far mostra di seguire questa piuttosto che quella delle idealità nuove o pro o contro, la tal famiglia e il tal nome, ecco tutto”. Potrebbe essere un'analisi scritta un'ora fa. E invece ha oltre un secolo. Le parole sono tratte da un articolo del giornale socialista “Avanti!”, del 27 febbraio 1898, scritta dal livornese Giuseppe Emanuele Modigliani, uno dei politici più importanti della sinistra italiana e corrispondente per la sua provincia per il suddetto giornale di partito. Undici anni prima uno studente anarchico denunciò un altro marchio della politica elbana: “la mala pianta dell'esclusivismo paesano, che funesta purtroppo l'isola nostra”. Firmato Pietro Gori.
Già queste lucide analisi, che hanno attraversato indenni i decenni, per rimanere in forma smagliante nei giorni nostri basterebbero a far capire con che tipo di amministrazioni abbiamo a che fare.
Ora, ci vorrebbe una serie a parte per fare una storia amministrativa dell'isola. Che di sicuro non farò né ora né in futuro: è un argomento che mi appassiona zero (anche meno di Napoleone, il che è tutto dire). Quindi parlerò di politica elbana solo in questo capitolo, anche se già nei precedenti capitoli ho sparso le prove dell'inadeguatezza degli amministratori a confrontarsi con un quadro globale dei problemi, alla mancanza di una prospettiva futura sulle soluzioni da dare, a visioni localistiche e di cortissimo respiro.
Una politica locale che è degradata anche per un altro fattore: la scomparsa dei partiti. Con tutti i loro difetti, qualche effetto positivo lo avevano, grazie alle loro strutture organizzate. Il primo era quello di una posizione di privilegio nella scelta dei candidati delle liste, che controbilanciava le spinte familistiche e di consorterie di stampo paesano. Che oggi invece rimangono padrone incontrastate sulla formazioni delle compagini elettorali. Il secondo era un'importante ruolo di controllo, eventualmente di opposizione, sia esterno che interno ai consigli comunali. Quindi uno straordinario bilanciamento dei poteri, oggi totalmente perso. O meglio, lasciato alle sole opposizioni consiliari, troppo spesso inadeguate, impreparate, se non addirittura complici della cattiva amministrazione.
Ma anche in questo caso dare la colpa ai soli amministratori è un alibi autoassolutorio. Innanzitutto perché il centinaio di rappresentanti delle istituzioni isolane non sono marziani (anche se per alcuni qualche dubbio viene) e non hanno mutazioni genetiche da poltrona (ma certo, come cantava Giorgio Gaber, “sono nati proprio brutti, o perlomeno tutti diventano così”, perché “la politica è schifosa e fa male alla pelle”). Non illudiamoci. Sono così perché sono prodotti dalla maggioranza di noi elbani. Pensano come le maggioranze, o comunque ne intercettano il pensiero. Quando un politico dice “mi candido perché me l'ha chiesto la gggente!”, può sembrare un birignao da trombone, ma sa benissimo quel che dice, essendo un prodotto del conformismo di quelle maggioranze.
Il cambio di paradigma culturale, quindi, deve iniziare da noi stessi. O capiamo questo o siamo fottuti. Gli amministratori seguiranno sempre pedissequamente gli umori delle maggioranze. Finchè non sentiranno che l'aria è cambiata, non saranno certo loro a cambiarla, a farsi massa critica di una cultura vecchia e fallimentare.
Perché dobbiamo dircelo brutalmente: se la politica elbana è sempre stata l'anomalia acutamente rilevata da Modigliani e Gori, la causa sta in quel familismo amorale che ha inquinato il rapporto, non tra persone e rappresentanti, ma tra semplici elettori e puri portatori di interessi. Il patto democratico non è quello kennedyano del cosa posso fare per il mio paese, ma cosa posso aspettarmi da chi eleggo e cosa lui può darmi. Il passo al diritto barattato per il favore personale (la licenza edilizia, il posto di lavoro nella partecipata, etc.) è stato immediato.
Ecco quindi dove sta il vero scollamento tra amministrati e amministratori. Nel fatto che il voto scambiato per cambiale in bianco (e, lo ripeto, per la colpevole indifferenza delle maggioranze, non degli eletti) e, peggio ancora, una assoluta mancanza di partecipazione, controllo e critica della vita amministrativa, consente agli eletti di non dover rendere più conto di niente a nessuno per cinque anni. Ormai la presentazione del programma a ogni tornata elettorale è una questione pro forma, del tutto pleonastica, dato che con la gestione del potere gli amministratori devono rispondere solo ed esclusivamente agli interessi delle conventicole che li hanno fatti eleggere.
Una gestione mostruosa del potere. E, ripeto, di cui siamo noi amministrati i responsabili.
Andrea Galassi