“Le cose del mare non sono di manco reputazione e utile alli stati che quelle di terra”, così scriveva Cosimo I de’ Medici, avendo compreso l’importanza dello sbocco sul mare, sul commercio marittimo e sulla difesa delle coste toscane e dell’Arcipelago.
Con un accordo economico con la Signoria di Piombino, Cosimo dimostra una grande capacità imprenditoriale: fa ripristinare nuove escavazioni di ferro per impiegarvi operai e cavatori, ‘concedendo loro quelle terre onde poterle coltivare e renderle fertili’.
In un accordo stipulato col Signore di Piombino è scritto: “È ceduto al Duca (…) tutta la quantità di ferro de l’Elba per consumo di tutte le Maone et il presente appalto s’intende durare anni XV”.
Tutto il minerale doveva essere consegnato alla Spiaggia o Marina di Rio, al caricatoio; “il carico e ogni altra spesa erano a conto del Duca”. Cosimo instaura un monopolio del ferro con le ‘Maone’ sparse in Toscana e nei territori delle varie Signorie.
Nei documenti appare il termine “Maona o Mahona” che in lingua araba significa originariamente ‘società commerciale’ o ‘contratto’.
Cosimo finanzia le spese degli appalti, sotto forma di prestiti, con le notevoli possibilità finanziarie che ha a disposizione nella Depositeria, al contempo la cassa del ducato, sia banca del patrimonio personale. Dispone che la sede del monopolio della Vena dell’Elba sia a Firenze; affidata a Bartolomeo Gualterotti che programma contratti e appalti di produzione di “ferro colato” (fuso), “ferro crudo” (ghisa) e “ferro sodo” (acciaio). È prodotta ogni sorta di materiale metallico come archibugi, palle di cannone, armature, fino alla produzione minuta di arnesi di carpenteria e ferramenta. Sotto forma di prestiti ordina la costruzione o la ricostruzione di “edifizi o fabriche da lavorare et in ferro ridurre la vena dell’Elba”; prosegue una serie di trattative affinché i contratti stabiliti dai “Maonieri” col principe di Piombino passino direttamente nelle sue mani. Il controllo sulla produzione del minerale elbano gli permette di produrre per le Maone di Genova, (comprendente Savona Finale e Noli), di Roma (col Patrimonio Vicarello e Napoli), di Lucca (con Pietrasanta, Barga, Fivizzano, Massa e il ducato di Ferrara), di Siena, di Pistoia, del Casentino, di Massa di Maremma (Marittima), di Bologna, compresi i “forni et edifizi” della Garfagnana (Duca di Ferrara) e delle ferriere della Montagna pistoiese, de La Leccia, di Castagneto e di Buti. Cosimo crea un organismo di produzione metallurgica possente che non ha rivali: le Maone toscane iniziano a produrre non solo per il consumo interno ma esportano semilavorati e prodotti siderurgici in Liguria, Emilia, Umbria, Lazio, riuscendo anche a ‘condizionare’ le ferriere di Lucca e di Ferrara, controllandone la produzione tramite il monopolio.
La morte di Jacopo V, signore di Piombino, il 20 ottobre 1545, non invalida il progetto monopolistico del Duca; un anno e mezzo dopo un nuovo accordo sancisce, per quel che riguarda l’isola, che tutte le vene siano lavorate da cavatori dell’Elba e che il minerale sia caricato dagli uomini di Rio, “su qualunque legno”. La creazione di un monopolio siderurgico e il notevole aumento dell’estrazione della vena comportano il cambiamento dell’antico metodo per cui ogni “terriere” è proprietario di un appezzamento della vena, può acquistarlo, venderlo o coltivarne altri che abbiano cessato di produrre da almeno un anno.
Gli “Statuta Rivi” stabiliscono l’antico metodo d’escavazione sull’“alto del monte delle vene o delle caviere”, laddove il minerale affiora. Questo metodo è in uso da secoli poiché comporta facilità estrattiva e minori costi di produzione.
Fin dai tempi del dominio pisano sull’Elba, negli Statuti è prescritto che ogni terriere di Rio o Grassula può “sgrottare” il terreno ferrifero, cioè dare forma di grotta o galleria, ma non può accettare di far lavorare più di un compagno, chiamato “mezzaiuolo”, col quale spartisce il guadagno a metà.
Vannuccio Biringuccio nel suo trattato sulla “Pirotecnia”, pubblicato a Venezia nel 1558, critica quel metodo ritenuto antico e medievale, cioè improduttivo: “Esser assai migliore e più sicuro modo il cominciar cavando dai piei, a le radici del monte, che da la cima o dal supremo dorso, e in questo adoperar l’ingegno e l’arte per condursi al luogo della massa grossa”.
Cosimo, aperto ad avanzate concezioni e portato all’applicazione di nuove tecnologie, riesce a modificare gli antichi metodi rivoluzionando la tecnica estrattiva con la “cava da basso” trasformando le lavorazioni sotterranee con quelle “a cielo aperto”, in analogia con i sistemi di estrazione del marmo sulle Apuane.
Il minerale estratto è trasportato agli “Spiazzi” dove si forma la “gita” ed è spostato alla Marina col “trabacco”, un contenitore e al tempo stesso un misuratore o stadera con cui è caricato sulle imbarcazioni.
Sebastiano Lambardi, Dichiarazione del disegno della cava di Rio, in Memorie antiche e moderne dell'isola dell'Elba, Firenze 1791
La “gita” prevede un procedimento complesso, controllato dal “Capitano della Vena”, coadiuvato da sei compagni “apparecchiati con l’arme”, per dirimere eventuali questioni o liti. Il Capitano deve essere “buono intendente cavatore di vena e che s’intenda avere buono arbitrio e balìa di decidere e sentenziare e terminare ogni lite”. A lui è affiancato il “pesatore della vena”, compito assai delicato e importante per cui deve prestare: “Corporale giuramento di pesare il giusto e onesto”. Lo “scrivano”, nominato ogni anno da almeno venticinque cavatori, tiene conto di tutto il minerale caricato sulle imbarcazioni e distribuisce il pagamento in natura, in grano e olio.
Questo metodo ‘salariale’, impiegato fin dalla dominazione pisana nei secoli XIII e XIV, è durato fin quasi alla fine del XIX secolo. Nel quindicennio che va dal 1543 al 1559, questa nuova tecnica della “cava dal basso o a cielo aperto” sostituisce lo scavo in miniera o in grotta e comporta l’aumento del numero dei cavatori, incidendo anche sul trasporto via mare con la nascita di una marineria Riese ed elbana.
Per sopperire al notevole aumento produttivo Cosimo si riserva di ricorrere ad altri “Elbani pratici per far cavare ciò che mancasse” impegnandosi “a pagarli in tanto grano e olio et altro a debiti prezzi”, mentre la crescita dei trasporti via mare implica l’utilizzo di navigli di trasporto fra cui le ‘pianelle’, barche con fondo piatto che trasportano fino a due, tre ‘Centi’ di minerale approdando agevolmente sui bassi fondali marittimi e inoltrarsi lungo i fiumi e canali. Le imbarcazioni addette al trasporto devono essere ‘piombinesi’; il minerale ‘cavato’ non può essere trasportato da uomini di Rio e neppure “patroneggiarle”, cioè noleggiarle o farsi armatori, ma l’aumentata richiesta di trasporto del minerale dalla Spiaggia al continente permette di superare le antiche regole imposte dal principe di Piombino.
Nasce una marineria riese con capitani e armatori di Rio. Nei documenti della fine del Cinquecento si possono leggere i nomi di alcune imbarcazioni: “San Giovanni Battista, Ascensione, San Pietro e San Iacopo, e quello dei loro “patroneggiatori”, Giovan Matteo di Domenico, Mario di Pasqualino, Francesco di Gozzo e Luigi di Iacopo, tutti della terra di Rio, per ricevere Vene dalli appaltatori e consegnarle e caricarle per la sesta parte del valore”.
Michelangelo Squarcialupi, commissario di Vena per conto dell’Appiano, nel 1568 così descrive le condizioni della gente di Rio: “Questo popolo è diviso in tre differenzie, in cavatori di vena, cioè, in omini di terra e in marinai. I cavatori essendo obbligati a cavar vena, son fatti immuni da molte gravezze; quelli che si esercitano in terra sono meno gravosi e gravatissimi sono i marinai, essendo che sieno obbligati alla milizia, servono qualche volta in terra, et in mare molto spesso sono comandati, essendo loro pochi in numero”.
Un’antica tradizione riguarda il trattamento riservato alle “povere vedove di Rio e Grassula” cui spettava il pagamento dei “minuti di vena che fussero portati”, ovvero del fine materiale ferroso raccolto sulle spiagge.
Alessandro Canestrelli
Galeotti al servizio dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano
Nella foto di copertina: Strumenti di lavoro nelle miniere elbane