Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi… le mura.
…
Era questa una costruzione che a distanza appariva come un tetragono (figura perfettissima che esprime la saldezza e l’imprendibilità…), i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro…, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s’innervavano a strapiombo.
Dico che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto mastio e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità con la terra e col cielo).
Umberto Eco – da “Il nome della rosa” (1980)
Come Guglielmo da Baskerville e il suo discepolo Adso, protagonisti del capolavoro di Eco, ci apprestiamo a scalare una piccola montagna alla sommità della quale si erge un’antica costruzione a pianta esagonale: il castello del Volterraio.
Al di là degli scenari che il visitatore potrà personalmente aggettivare durante l'ascesa, sollevandomi qui da questa estetica descrizione, può tuttavia rendere ancora più suggestivo il breve viaggio scoprendo qualcosa di ciò che sta sotto di noi - di solito poco "pensato" -, sapendo ovvero che, mentre si sale poggiamo i piedi su un’antichissima formazione geologica. Basti per ora pensare che essa data a quando dell'uomo non esisteva neanche l'antenato del prototipo antropomorfo, tanto antica che ci riporta con la sua storia perfino alla nascita dell’area mediterranea. Ci troviamo infatti di fronte ad una importantissima serie stratigrafica, straordinariamente completa qui all’Elba, detta nella più recente letteratura geologica "Subunità Volterraio" e facente parte (una delle sei) della “Unità ofiolitica Monte Strega”, e testimone dell’antico braccio d’oceano tetideo.
Ma perché testimone?
La spiegazione sta nel fatto che, ancora prima che l'Italia geologica (figuriamoci quella geopolitica di oggi) esistesse come la conosciamo, questa serie costituiva il fondo di quell’antico oceano noto a tutti col nome di Tetide; quello su cui poggiamo i piedi oggi salendo al Volterraio (394 metri l.m.m.), altro non è che una scheggia sollevata e deformata dalla tettonica, un relitto di quel fondo, e come tale un attendibile testimone.
Tentiamo allora di conoscere meglio quella base che rappresenta "i piedi" del castello attraverso una brevissima ricostruzione della formazione geologica che lo ospita da circa un migliaio di anni: un tempo lunghissimo per noi, appena una quarantina di generazioni umane, ma come dire una frazione di secondo se rapportato alla storia del paesaggio che lo ha accolto e lo circonda (che potremmo - ma non possiamo per assenza umana - uguagliarlo a ben 6 milioni e mezzo di nostre generazioni).
Siamo infatti nel Giurassico medio, circa 160 milioni di anni fa, quando Pangea (tutte le terre), il supercontinente, già sottoposto da lunghissimo tempo a deformazioni geodinamiche divergenti (in allontanamento tra di loro), si rompe, separandosi in due grandi continenti: Eurasia a nord e Gondwana a sud. Come dire che tira tira, la corda si rompe, e ognuno va per conto proprio.
Tra queste due masse continentali va aprendosi un golfo all'interno del quale progressivamente si espandono le acque di Pantalassa (tutti gli oceani) a formare il nuovo oceano Tetide.
I geologi e i geofisici ci dicono che sul fondo della Tetide si è formata una frattura che interessa la crosta oceanica, e che da questa frattura - una dorsale simile alle attuali dorsali medioceaniche - esce materiale molto caldo proveniente dalle profondità dell’astenosfera che va a formare nuova crosta oceanica.
I due nuovi continenti si trovano così separati da un nuovo oceano che si espande progressivamente per effetto di movimenti tettonici divergenti delle placche, e questa nuova crosta si espande anch’essa divergendo dalla frattura, nello stesso verso in cui i due continenti si allontanano tra di loro.
Le ofioliti, quelle che incontreremo salendo verso il Volterraio con Guglielmo e Adso, con la vostra guida, in solitaria o con chi vorrete, sono proprio l'associazione di quelle rocce magmatiche (un piccolo frammento) che componevano quella crosta oceanica, antica di 160 milioni di anni, e che per complesse dinamiche tettoniche sono poi venute alla luce. Sono quelle che incontreremo per prime poco dopo avere preso la strada provinciale del Volterraio.
Sulla sinistra, a monte della strada e ben visibili all'interno di una piccola cava di prestito, incontriamo un ammasso verdastro: sono le Serpentiniti, rocce magmatiche ultrabasiche (per il basso contenuto di silice), dette anche ultramafìti. Sono rappresentative del mantello, il livello solido e plastico concentrico dell’interno della Terra sul quale “galleggia” la litosfera. Le serpentiniti costituiscono la base della nostra serie.
Vediamo quindi - in successione - da quali altre rocce che stanno sopra alle serpentiniti appena incontrate, è costituita quell’associazione. Teniamo conto che sono tutte di età giurassica, ragione per la quale con un po’ di fantasia potremo immaginare che stiamo facendo una passeggiata, una sorta di fantastica avventura in un reale "Jurassic park", vero stavolta, tra T.rex, e velociraptor. Tranquilli, non ci sono; al massimo incontreremo qualche capra selvatica che dall’alto ci controlla.
Alle serpenitini seguono
i gabbri: rocce ancora magmatiche, equivalenti del basalto che incontreremo, ma intrusive. Il nome di queste rocce deriva - facilmente intuibile - dalla località Gabbro (dove è nata la cantante Nada Malanima dei miei tempi), luogo in cui la riconobbe - la roccia, non Nada - il geologo e paleontologo Leopold von Buch. È una roccia molto scura costituita da plagioclasio, pirosseno, olivina e anfibolo.
Ai gabbri seguono (sempre verso l’alto)
i basalti: rocce vulcaniche effusive molto scure se non del tutto nere che, nel nostro caso presentano una bellissima struttura “a cuscini” (pillows lavas nella letteratura anglosassone), ben visibili nei pressi del “trincerone”, dovuta al rapido raffreddamento subacqueo del magma che a contatto con l’acqua marina solidifica molto rapidamente, formando masse sferoidali dalle quali, aprendosi, ne fuoriescono altre... e così via, in una sorta di cuscino che nasce da un altro cuscino. Fine della serie magmatica!
Questa intera successione magmatica (serpentine, gabbri e basalti)
è coperta da un complesso di rocce sedimentarie silicee che i geologi chiamano radiolarite. È una roccia organogena, ovvero, come dice l’aggettivo, formata dal lento accumulo di materiale organico: scheletri a composizione silicea di Radiolari (protozoi noti fino dal Cambriano che oggi fanno parte del plancton marino). La radiolarite ha una struttura a grana finissima e colorazione brillante e vivace (specie se la bagnate con un po’ d’acqua della vostra scorta) che va dal rosso al verdastro.
Già da lontano, dalla nave e poi mentre in auto ci avviciniamo a questa montagnola per poi proseguire a piedi, non possiamo fare a meno di rilevare quanto il paesaggio ofiolitico (forse ora ne sappiamo appena un po’ di più) si distingua dall’intorno geologico e morfologico di questo pezzo dell’Elba centrale. Aspro e selvaggio il profilo del rilievo appare perfino arcigno per la maggior resistenza all'erosione delle sue rocce rispetto alle circostanti; la copertura vegetale è scarsa o quasi assente per la presenza di roccia esposta e mancanza di suolo.
Avvicinandoci poi verso i piedi del castello, viene da chiedersi quanti e quali genti abbiano percorso quella via prima di noi in così tanti secoli della sua storia. Costruito come si è detto intorno all’anno Mille, probabilmente sui resti di una struttura etrusca, il Volterraio è stato nel tempo ampliato fino al XVII secolo quando fu costruita la piccola, modesta e umile, e disadorna ma per questo bellissima cappella. Oggi luogo dell’anima per escursionisti in cerca di romitaggio tra i suoi bastioni alti e dominanti sul golfo di Portoferraio, fu in passato più volte assediato ma mai espugnato: resistette all’attacco dei tunisini nel 1402, del Barbarossa nel 1544 e dei saraceni nel 1553 e 1554. Eppure dai documenti storici si apprende che il sistema difensivo non era poi così potente.
Due allora furono, a mio parere, i migliori alleati degli occupanti, due capolavori, uno dell’uomo e uno della natura: geniale architettura militare e geologia. La prima riscontrabile in molti particolari costruttivi, la seconda nella formidabile posizione dovuta proprio ad aver costruito quel castello, avvinghiato alla roccia fin quasi a sembrarne parte, su un fondale oceanico fortemente tettonizzato, deformato e sollevato al punto da rendere non facile l’avvicinamento delle guarnigioni all’assalito sia per l’unica via accessibile, sia per le considerevoli pendenze e la mancanza di copertura.
Mille anni, migliaia di storie, tra leggendarie principesse etrusche, fantasmi di assalitori trucidati dalle bordate degli assaliti, fiordalisi dell’Elba che ho visto crescere sui resti di quei bastioni, e romitaggi di camminatori e poeti in cerca di quel silenzio rotto solo dal vento e dal grido degli uccelli.
“L’ombra t’accoglie.
Il maestrale corre fresco nel cielo: giù mormora e sosta.
Con lui parli se vuoi,
mentre la torre del Volterraio
pur essa a noi s’accosta.”
Da “Canti dell'ombra” di Emilio Agostini (1874-1941) il poeta di Rio amico del Carducci.
Buon cammino...
Nicola Gherarducci