C’è un luogo, nel cuore verde dell’Elba, che sembra scaturito dall’immaginazione di uno scrittore o di un pittore d’altri tempi.
La lunga vallata di Literno s’insinua dentro l’isola come un serpente veloce, inoltrandosi tra il Poggio Tondo e la Pente, il Primo Tocco e i Mattoni.
Tutta la zona è ricca di macchia mediterranea, in cui si aprono ogni tanto delle «teppe» di giallo granito porfirico; vi scorre il Fosso degli Schiùmoli (toponimo derivante dalle scorie della lavorazione del ferro che là si svolgeva), un corso d’acqua che ha origine dal boscoso Puntale (ossia un crinale tra due torrenti) e dall’ombrosa – «nomen omen», avrebbero detto i latini – Umbrìa.
Al termine della valle compaiono d’improvviso, tra la vegetazione, i ruderi di un lungo casolare, una curiosa «stecca» di cinque vecchie abitazioni presenti almeno dal 1840, come ci raccontano le carte del Catasto leopoldino; e le stesse carte ne descrivono i numeri di particelle catastali (4138, 4139, 4140, 4141, 4143-4144).
Tra i ruderi si intravedono ancora alcune pareti dipinte in rosso paonazzo e celestino; fanno poi capolino mensole in muratura, grossi camini in pietra, travi e travicelli in duro legno di castagno. Il tutto, naturalmente, devastato da edere, marcescenze e da quei crolli che accompagnano tanto fedelmente il corso del «tempus edax».
Fanno da controcanto alla «stecca» due altri edifici isolati (4099 ad Ovest e 4131 ad Est), oggi assai disastrati ed affogati in un groviglio di alaterni, lecci e corbezzoli.
Un altro bell’edificio, successivo però al 1840, si trova a breve distanza dalla «stecca»; immerso in una pineta, conserva al pianterreno una serie di palmenti interni corredati di tre inusuali arcate, nelle cui vasche in muratura avveniva la spremitura dell’uva. Il piano superiore era invece decorato con motivi geometrici e vegetali, tra cui spiccano dei bei girali rossastri su fondo bianco.
Queste case coloniche – attraversate dall’antica Strada dei Campesi, che oggi corrisponde ad un esteso tratto della Grande Traversata Elbana – tra Ottocento e Novecento furono abitate da lavoratori stagionali dell’Appennino emiliano (dagli elbani impropriamente chiamati «lombardi») che, come racconta Angela Provenzali, «venivano a zappare le vigne per racimolare qualche soldo».
Ed è per tale motivo che quelle commoventi dimore abbandonate nel cupo della vallata sono ancora oggi chiamate Case dei Lombardi.